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Assisi

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Scopri Assisi: la città dell’anima

Scopri la città dell’anima, lo splendido borgo patrimonio mondiale dell’UNESCO che diede i natali a San Francesco d’Assisi.

Che arriviate dalla stazione o dalla strada, la piccola e maestosa Città Serafica, arrampicata sulla cima del suo colle ai piedi del verde Monte Subasio, comincia a sbalordirvi da lontano. Già dalla pianura, tappezzata di campi di grano e girasole, è possibile distinguere con incredibile nitidezza la mole del Sacro Convento, che delimita la parte orientale della città e sembra sospingere verso l’alto il resto del borgo, che sale fino a fermarsi a un passo dalla cima, occupata dalla Rocca Maggiore. Quest’ultima resta infatti isolata da una fascia alberata, tanto che di notte, spente le luci naturali e accese quelle artificiali, sembra fluttuare sospesa.

Quella appena descritta è la cartolina più classica di Assisi, di quelle che potrete trovare in tutte i negozi di souvenir e ovunque sul web, peccato che non riusciranno mai a restituire la sensazione che si prova a vedere la scena dal vivo, proprio da lì, in mezzo ai campi di girasoli.

In realtà Assisi non ha bisogno di grandi presentazioni, perché è la città umbra più famosa del mondo. Fu la città che diede i natali a S. Francesco, uno dei più grandi rivoluzionari della chiesa cattolica, e a S. Chiara, sua fedele seguace. Tempio di sacralità e di spiritualità fin dai tempi antichi, tanto da meritarsi l’appellativo di “Città della Pace”.

Ma, attenzione, questo non deve trarvi in inganno. Nonostante l’aura salvifica e celeste che emana, la città ha vissuto a lungo dei periodi in cui era meglio starle alla larga. Per secoli fu teatro di sanguinose guerre, lotte intestine e continui saccheggi. Condottieri come Carlo Magno, Federico Barbarossa, Cesare Borgia e tanti altri vollero metterle le mani addosso. Le continue invasioni scatenavano carestie ed epidemie che decimavano la popolazione. Oltre agli stranieri, gli stessi Assisani non erano da meno.

La rivalità fra Guelfi, sostenitori del Papa, e Ghibellini, sostenitori dell’Impero, era in città più sentita che mai. Gli omicidi e le rappresaglie fra le varie famiglie schierate erano all’ordine del giorno. Sembra un paradosso, ma nel Trecento la città fu per ordine del Papa interdetta dai sacramenti religiosi e gran parte della sua popolazione scomunicata! Girare per la città disarmato era una completa follia. Come se non bastasse, i terremoti non l’hanno mai lasciata in pace. Basti pensare che tra il XIV e il XIX secolo si ha memoria di ben quaranta terremoti che devastarono il centro e misero in ginocchio gli abitanti.

Scopri che Assisi, come tutte le città, ha un lato oscuro e visitandola ci si può divertire a immaginare tutto ciò che è successo nel corso della storia lungo le bianche stradine lastricate, nelle serafiche piazzette e davanti le magnifiche chiese. La bellezza e l’importanza di questo posto vi balzerà subito all’occhio.

Alla scoperta di Assisi

Scopri cosa vedere ad Assisi, la città di San Francesco.

Assisi è stata inserita nella lista dei Patrimoni mondiali UNESCO nel 2000 grazie all’importanza che i luoghi di S. Francesco hanno rivestito nella nostra storia. Il viaggio attraverso queste meraviglie non può che cominciare dal sito francescano per eccellenza, la Basilica di S. Francesco, adagiata sul Colle Paradiso, altura che si estende a est della città. Un colosso monumentale che comprende ben tre chiese, una sopra l’altra, e il Sacro Convento, con le sue cinquantatré maestose arcate di sostegno. La sua sorella minore, la Basilica di S. Chiara, è una tappa obbligata se si vuole conoscere la storia della santa protetta di Francesco.

Il viaggio alla scoperta della vita di due dei personaggi più importanti della religione cristiana continua nella varie chiese e luoghi sacri della città. La Chiesa di S. Maria Maggiore, dove la tradizione vuole che Francesco si spogliò di ogni bene in pubblico, la Chiesa Nuova, costruita sopra la casa dove il Poverello passò la sua infanzia, la Cattedrale di S. Rufino, uno dei più antichi edifici religiosi della città insieme all’Abbazia di S. Pietro.

Se volete seguire le tracce della Assisi comunale e del suo interminabile passato bellicoso la Rocca Maggiore e la Rocca Minore vi daranno un’idea di quei giorni così turbolenti e delle incredibili tecniche che vennero raggiunte per difendere la città dai nemici. La Piazza del Comune, con il Palazzo del Capitano del Popolo, la Torre Civica, il Palazzo dei Priori, il Tempio di Minerva, è il luogo più bello e colmo di storia che potrete trovare in città. Al di sotto della Piazza si estende la Assisi più ancestrale. Al Foro Romano e alla collezione archeologica potrete ammirare i resti del periodo romano e pre-romano della città, con i segreti della misteriosa civiltà umbra. Se vedere questo non vi basta potete visitare la Domus del Lararium e la Domus di Sesto Properzio per capire cosa si provava nella quotidianità e nell’intimità delle dimore degli antichi abitanti di Assisi.

Non sottovalutate la bellezza di passeggiare senza meta fra le stradine lastricate e i vicoli, vi perdereste degli scorci meravigliosi. Vi consigliamo la incantevole Via Fontebella, la Via Bernardo da Quintavalle, che sembra essersi cristallizzata al tempo delle lotte intestine medioevali, e naturalmente Via S. Francesco, la strada che porta alla Basilica, percorsa da otto secoli da tutti i pellegrini del mondo, dove affaccia anche il pregevole Palazzo del Monte Frumentario.

Le vostre passeggiate potrebbero continuare al di fuori delle mura della città, dove il connubio fra il paesaggio naturale e quello antropico crea atmosfere non meno meravigliose. Salendo verso il Monte Subasio non potete non visitare l’Eremo delle Carceri, il tempio della misticità francescana, l’antichissima Abbazia di S. Benedetto al Subasio e la Chiesa di S. Angelo in Panzo. Scendendo verso valle troverete invece il Santuario di S. Damiano, dove la storia di Francesco e Chiara si incrocia indistricabilmente e, ancora più giù (vi converrà prendere un bus) la maestosa Basilica di S. Maria degli Angeli.

Chiara giaceva stanca, debole, ma felice. Sapeva che era arrivato il momento di lasciare la vita terrena ed era emozionata. Il suo cuore palpitava di gioia perché da lì a poco avrebbe trovato l’Eterno, ma poi in un attimo arrivava la tristezza, pensando a quanti, consapevoli di aver vissuto una vita turbolenta e peccaminosa, vivono nel terrore i loro ultimi momenti, non trovando la pace neanche sul letto di morte. Si rammaricava di non poter essere con tutti loro a consolarli e ad aiutarli ritrovare la fede.

Le sorelle, compagne di una vita, le stavano intorno come in trance nella piccola cella del Santuario di San Damiano, senza proferire parola. Non c’erano parole appropriate per descrivere la situazione. In quella calda giornata estiva al Convento di San Damiano regnava un silenzio irreale. Gli uccelli, i cani, gli animali nei cortili, anche il vento pareva essersi ammutolito, concentrato nell’attesa e nel raccoglimento.

Chiara rivedeva dal suo giaciglio tutte le battaglie che aveva portato avanti, prima insieme a Francesco per l’affermazione dell’Ordine dei Frati minori, poi da sola, una volta che il suo amato maestro lasciò la vita terrena, per il riconoscimento dell’ordine femminile. Non poteva dirsi soddisfatta fino in fondo. In anni di sforzi non era riuscita a far approvare la Regola Francescana per i conventi femminili. Il Papa, a cui lei si rivolse e implorò più e più volte, non volle mai ascoltarla. Un cruccio che turbava la sua gioiosa dipartita e che la faceva sentire incompleta.

Ma d’un tratto un sordo frastuono in lontananza ruppe il silenzio irreale della sua cella. Piano piano che il rumore cresceva si distinsero dei destrieri al galoppo e il secco legnoso fracasso di una carrozza che percorreva i sentieri dissestati per arrivare a S. Damiano. Una volta che il fracasso fu arrivato in prossimità del convento si sentì un gran vociare che durò alcuni minuti, per poi interrompersi bruscamente.

La porta della cella di Chiara si aprì. Apparve sulla soglia Papa Innocenzo IV in persona. Aveva in mano un pezzo di carta pecora dal quale pendevano due sigilli plumbei. Era la bolla Solet Annuere Sedet, con la quale il pontefice riconosceva e ratificava integralmente la sua Regola per il convento. Il Pontefice era in visita pastorale alla città e volle dare l’annuncio di persona alla monaca. Porgendole la carta si sincerò dello suo stato di salute. Si rallegrò di essere arrivato in tempo a dare la notizia e si congedò, dando a tutti la sua benedizione. Era l’agosto 1253. Da lì a poco Chiara si spense. Trasportarono il suo corpo in processione e sepolto sotto la Chiesa di S. Giorgio, più vicino alle mura della città e ai suoi cittadini.

Nel 1893 la badessa Matilde Rossi, sistemando la salma della Santa dissepolta qualche decennio prima, trovò tra le sue vesti quella stessa bolla, che poi ordinò di sistemare nella cripta della Basilica di Santa Chiara come reliquia.

 

La costruzione della Basilica di santa Chiara cominciò nel 1257. Due anni dopo la canonizzazione di Chiara. Fu progettata per inglobare la Chiesetta di San Giorgio, dove, oltre a quelle della Santa, vennero inizialmente tenute le spoglie di Francesco e dove egli stesso venne canonizzato. Nel 1263 l’ordine francescano femminile delle Clarisse venne riconosciuto universalmente e nel 1265, dopo la solenne cerimonia di inaugurazione della Basilica a cui partecipò Papa Clemente IV, vi si trasferirono le consorelle di Chiara, che avevano dimorato per quarant’anni nel convento di San Damiano.

Lo stile architettonico di costruzione è molto simile a quello della Basilica di San Francesco, costruita nello stesso periodo. Le differenze più visibili con la Basilica “sorella” che sorge alla estremità opposta della città vecchia sono costituite sia dalla decorazione esterna, composta dalla tipica pietra bianca e rosa proveniente dal Monte Subasio, sia dalla presenza degli archi rampanti laterali. Aggiunti posteriormente per dare stabilità alla struttura, questi archi conferiscono alla chiesa un aspetto inconfondibile. Il campanile, che svetta dietro il corpo della chiesa, è il più alto d’Assisi.

Entrando nella chiesa potrete ammirare ai lati della navata la Cappella di Santa Agnese, sorella di sangue e di spirito di Chiara, e la Cappella di San Giorgio, cioè ciò che rimane della piccola chiesetta che ospitò le spoglie dei due personaggi più importanti di Assisi. Appeso in alto, sopra l’altare della Cappella, c’è il Crocifisso di San Damiano, la cui storia lega indissolubilmente le vicende dei Santi.

Le monache, quando si trasferirono dal Convento di San Damiano alla Basilica di Santa Chiara, portarono con loro anche il crocifisso perché aveva un valore particolare. Era il crocifisso che per primo parlò al giovane Francesco quando chiedeva consiglio al Signore non sapendo che cosa fare della sua vita. “Vade Francisce, repara domum meam!” fu la risposta (“Vai Francesco, ripara la mia casa!”) che il giovane non colse fino in fondo. Egli vendette alcuni beni per ristrutturare la piccola chiesetta cadente che ospitava il crocifisso. Solo più tardi capì che probabilmente la “casa” del Signore che doveva riparare non consisteva in quel piccolo edificio, ma nella casa di tutta la cristianità.

Il crocifisso risale al XII secolo, prima dell’avvento del realismo di Giotto e Cimabue. Ciò che il pittore vuole far trasparire dallo sguardo e dalla posizione del Cristo non è tanto il dolore e la sofferenza della divinità fattasi uomo, quanto la gloria e la grandezza del gesto che lui fece per i suoi figli. Si racconta che il crocifisso era stato dipinto su una tavola completamente piatta prima della sua rivelazione. All’atto di rivolgersi a Francesco la testa del Cristo si “staccò” dalla tavola. Si protese verso di lui, materializzandosi in forma tridimensionale, la forma con la quale lo ammiriamo oggi. In realtà sappiamo che quella di dipingere i volti sopra un rilievo sporgente era una tecnica abbastanza diffusa durante il medioevo.

All’interno del transetto di sinistra è installata un’altra delle opere più significative contenute nella Basilica: la Pala di Santa Chiara. Una tavola eseguita alcuni anni dopo la morte della Santa, dove lei è rappresentata in stile bizantino con a fianco otto scene salienti della sua vita spirituale, comprese quelle che abbiamo raccontato all’inizio di questa pagina. Le riconoscete?

Insieme alla tavola “sorella” della Madonna della Cortina, esposta nel braccio destro del transetto, le due opere sono convenzionalmente riconosciute come dipinte da un’unica misteriosa mano. Appartenuta ad un artista che, apparentemente, non lasciò traccia, il Maestro di Santa Chiara.

Nel 1850, sulla scia dell’entusiasmo ottenuto dal ritrovamento della tomba di San Francesco, fu ordinato di riesumare il corpo della sua santa discepola. Scavarono un cunicolo “alla profondità di sedici palmi dal pavimento”. Lì ritrovarono la tomba, costituita da un sarcofago di travertino grezzo cinto da una fascia di ferro. Oggi è possibile scendere nel cunicolo e ammirare la cripta costruita intorno al sepolcro. Oltre alla tomba, composta da un’urna di cristallo e pietra del Subasio sulla quale è sdraiato il corpo reliquiario, vestito del saio originale e che contiene i resti della Santa, è possibile visitare un’ulteriore zona dove sono esposte molte altre reliquie, tra cui la tanto agognata bolla che lei portò con sé sul letto di morte. Il documento cartaceo, a rischio conservativo, è stato sostituito recentemente da una copia fotostatica, lasciando solo la cornice e i sigilli originali.

Scendendo in quell’ambiente un’atmosfera mistica e spirituale vi travolgerà. Un’esperienza rara che in un sol colpo ci mette di fronte alla potenza con la quale una singola storia, una singola vita, possa influenzare, dopo otto secoli, la storia di tutti.

Era l’estate del 1228. A neanche due anni dalla sua morte, Francesco d’Assisi veniva canonizzato. Si apprestava a divenire uno degli uomini e dei santi più conosciuti al mondo. Frate Elia, ministro generale dell’ordine francescano, era in pieno conflitto con i suoi confratelli. Sosteneva che quello lasciato all’interno della Chiesa dal loro precettore era un vuoto enorme, incolmabile.

Il ricordo dei suoi valori e delle sue gesta doveva essere tramandato ai posteri fino al giorno del giudizio. Nel corso del tempo non un briciolo di gloria né dell’importanza di questo ricordo doveva andare perduto. Il tempo distrugge ogni cosa, Elia lo sapeva bene, perciò era assolutamente necessario infrangere la Regola, cioè la volontà stessa di Francesco, che imponeva all’ordine l’umiltà, la povertà e la non accettazione di denaro se non “per le necessità dei malati e per vestire altri frati”.

Elia sapeva che per far rimanere intatto nel tempo il messaggio straordinario di Francesco, esso doveva essere tramesso attraverso la bellezza. La grandiosità del suo mausoleo. Le stesse caratteristiche che hanno permesso di far arrivare fino a noi i templi, le tombe e la memoria dei grandi uomini dell’antichità. Sebbene il tradimento della Regola e, in qualche modo, del suo maestro provocasse a Elia un grande dolore, egli era convinto. Era l’unica strada da seguire. E così fu. Quando ammirerete la Basilica di San Francesco, la sua maestosità e le sue splendide decorazioni, pensate anche che sono il frutto del travaglio spirituale e della tenacia di un solo uomo. Ma con una responsabilità enorme. In continua lotta con sé stesso e con gli altri.

Due anni dopo la Basilica inferiore doveva essere già a buon punto perché fu deciso di trasferire la salma di San Francesco al suo interno. Fino ad allora giaceva nella Chiesa di San Giorgio, al posto della quale oggi sorge la Basilica di Santa Chiara. Per quanto riguarda la costruzione della Basilica superiore c’è più incertezza sulle date, ma gli ultimi ritocchi risalgono al 1267. Il complesso, formato da due chiese distinte, una sopra l’altra, e dal Sacro Convento, sorge per volere del poverello – questo sì, fu rispettato ‒ su di un colle che era comunemente chiamato Colle Inferno. Questo perché prima dell’edificazione della Basilica di San Francesco costituiva un lugubre territorio periferico della città utilizzato per le esecuzioni capitali. Dalla posa della prima pietra della Basilica, il colle cambierà nome in Colle Paradiso.

La Basilica attirò da tutto il mondo artisti e mastri costruttori per la sua costruzione. Frate Elia, come già detto, voleva solo il meglio. Per l’innalzamento dell’edificio scelse ciò che di più moderno era disponibile sul mercato delle costruzioni dell’epoca. Egli diede la commissione ai Maestri Comacini, che si spostarono in gran numero dal Nord dell’Italia per dedicarsi interamente alla Basilica. Essi portarono una ventata di innovazione mai vista, ad esempio importarono dall’Europa l’utilizzo dello stile gotico. La Basilica è una delle primissime costruzioni dell’Italia Centro-Meridionale che mescola l’architettura gotica allo stile predominante del tempo che era quello romanico. Ma come è possibile riconoscere l’influsso gotico?

Se pensiamo al Duomo di Milano, esempio classico della architettura gotica, e lo confrontiamo con la Basilica di S. Francesco, non troveremo certo molte congruenze. Infatti la “goticità” della Basilica non sta nella sua struttura, bassa, tozza e possente come le chiese romaniche, ma nei particolari architettonici. Ad esempio gli archi delle volte e delle finestre costruiti a sesto acuto; i costoloni, cioè quegli elementi con funzione sia decorativa che strutturale che suddividono le volte in parti uguali ‒ quattro, nel caso della basilica ‒ dette vele; la presenza dei rosoni sulla facciata e delle enormi vetrate luminose, tra le più antiche del mondo. Questi elementi sono un segno inconfondibile dell’influenza gotica.

I Maestri Comacini, venuti ad Assisi per il lungo periodo del cantiere della Basilica, si dovettero trovare molto bene. Alcuni di loro vi si stabilirono e presero parte alla costruzione di altri edifici, lasciando il loro segno per la città. Camminando per le strade di Assisi potrete scovare sulle facciate e sugli architravi di alcuni edifici lo stemma della corporazione. Un compasso aperto sopra un fiore. Come quello che si può vedere scolpito sull’architrave della Loggia dei Comacini in Via San Francesco. La strada che dalla Basilica sale verso la Piazza del Comune.

Nel ‘400 il culto di San Francesco era in pieno vigore e venne creata l’attuale piazza al posto della corte antistante la Basilica. Visto che non riusciva più a contenere la folla di pellegrini durante le celebrazioni per le festività legate al santo. Questa massa sterminata di persone attirava con sé una altrettanto grande massa di mercanti e venditori ambulanti. Arrivarono a occupare con i loro banchi delle mercanzie gli spazi fin dentro la Basilica inferiore. Il Papa allora ordinò di sistemare anche la piazza antistante il portale della Basilica Inferiore. Poteva così ospitare i mercati in maniera ordinata sotto i loggiati.

Per paura dei predoni di tombe o di qualche esuberante fedele a caccia di reliquie, le spoglie di Francesco vennero seppellite molto in profondità. In un punto che, vuoi per il segreto che era necessario mantenere, vuoi per il tempo trascorso dalla sepoltura, presto venne dimenticato. Nel 1818 il papa ordinò di sondare il terreno sotto l’altare della Basilica inferiore. Alla cinquantaduesima notte di scavi, quando tutti cominciavano a perdere le speranze, tanto da mettere in dubbio il fatto che Francesco fosse effettivamente stato sepolto lì, il piccone di un operaio si imbatté in un duro pezzo di granito. Avevano finalmente trovato il sepolcro del santo.

L’anno successivo Assisi fu invasa da pellegrini come mai in tutta la sua storia. Più tardi, per dare lustro, dignità e ospitare la salma del santo, venne costruita la cripta sotto la Basilica inferiore. Si aggiungeva un ulteriore livello alla già complessa stratificazione architettonica delle due chiese.

Se visiterete le due basiliche percepirete chiaramente la diversità dell’atmosfera che anima i due spazi: l’inferiore, con la cripta sotterranea, più buia, greve e raccolta; la superiore, decisamente più luminosa, leggiadra e gloriosa. C’è un motivo preciso, che probabilmente lo stesso Elia colse nel progettare la costruzione.

La Basilica inferiore doveva essere dedicata alla vita terrena del santo, fatta di sacrificio e privazione; la Basilica Superiore doveva invece rappresentare la santità e la gloria della vita celeste di Francesco. Ecco l’idea di Elia: per tramandare la grandezza di san Francesco c’era bisogno che la Basilica stessa intervenisse nella comunicazione. Un fedele, anche analfabeta, doveva poter conoscere San Francesco. La sua vita e i suoi valori. Sia attraverso le atmosfere create dall’architettura, sia attraverso i messaggi mandati dalla pittura dalle decorazioni e dal tripudio dei colori.

Ma c’è di più: passando dalla Basilica inferiore a quella superiore si assiste a un altro percorso di transizione, quello della pittura. Avrete l’occasione di vedere in un solo colpo un passaggio epocale per l’arte. Fra lo stile greco-bizantino, con sapori e influenze orientali, e quello tipicamente italiano. Lo stile che porterà i geni artistici di questa terra a concepire uno dei prodotti culturali più importanti della storia: il Rinascimento.

Perciò seguendo l’idea espressiva di Elia cominceremo a visitare il complesso dalla Basilica Inferiore. Gli affreschi dell’unica navata sono come detto i più antichi. Molto influenzati dalla pittura bizantina, riconoscibile dalla staticità, dall’aspetto meno realistico e simbolico delle figure. Vedremo infatti sulle vele molti affreschi composti da sfondo blu oltre mare puntinato di stelle d’oro, e i costoloni decorati con motivi geometrici. Nella parte destra del transetto c’è una delle più belle e antiche opere di Cimabue: la Madonna in trono con San Francesco. Si dice che essa era così bella che il pittore incaricato di ridipingere alcuni decenni dopo la volta si rifiutò di coprirla. E fu una fortuna, perché in questa opera potrete vedere il ritratto di Francesco più fedele mai dipinto. Corrisponde perfettamente alle descrizioni della sua fisionomia lasciateci dai coetanei.

Tra le scene della parete di fondo, dove si apre l’arco di accesso alla cappella di S. Nicola, si trovano alcuni affreschi dedicati ai miracoli di San Francesco. Quello in cui si vede un palazzo crollato si riferisce al miracolo del fanciullo di Suessa. Era morto sotto le macerie e resuscitato dopo che la madre invocò l’intercessione di Francesco. Nell’affresco, dipinto dalla Bottega di Giotto, si dice vi siano raffigurati Dante e lo stesso Giotto, il quale compare alla sinistra della folla disperata che piange, con la mano sul mento. Nella parte sinistra del transetto si possono ritrovare alcuni affreschi di altri prestigiosi artisti, come Pietro Lorenzetti con la sua grandiosa Crocifissione.

Tornando alla navata, nel lato sinistro troverete una delle cappelle più belle della chiesa, quella di S. Martino, completamente affrescata da Simone Martini, maestro della scuola senese e uno dei pochi in grado di contendersi lo scettro di miglior pittore del suo secolo con Giotto. Dai suoi affreschi possiamo vedere una raffinata e fedele riproduzione degli stili e dei costumi aristocratici e cavallereschi del Trecento.

Il reliquiario posizionato sull’altare maggiore contiene la costola di Giovanni Battista e giace lì per volere di Innocenzo IV. Dal transetto sinistro si accede alla sagrestia e poi alla sagrestia segreta. Nella quale sono conservate, fra le tante reliquie, la bolla originale dell’approvazione della Regola, promulgata da Onorio III nel 1223 e alcuni degli oggetti appartenuti a S. Francesco come vestiti, oggetti personali. Per la scala sinistra della navata, si sale al maestoso Chiostro di Sisto IV, che spesso ospita mostre ed eventi. A metà navata, per la scaletta di destra si accede invece alla cripta.

La cappella della cripta come la vedete oggi risale ai lavori eseguiti tra il 1925 e il 1932. La tomba comprende l’urna originale contenente le spoglie di Francesco da Elia. Qui vi sono sepolti anche quattro fidi discepoli del santo: i Beati Rufino, Leone, Masseo e Angelo. È inutile qui descrivere l’atmosfera e la sensazione che si prova a stare di fronte alla tomba del Santo, che voi siate religiosi o no. Anzi, più che inutile, è impossibile.

Salendo alla Basilica Superiore si possono ammirare gli affreschi più belli di Cimabue, tra cui la Crocifissione, nella parte sinistra del transetto. Sfortunatamente gli affreschi sono anneriti per effetto dell’ossidazione della biacca che da quasi l’effetto di un negativo di una fotografia. Nonostante ciò è evidente la grande forza didascalica del soggetto. Giorgio Vasari, uno dei più importanti storici dell’arte italiani, rende molto bene l’idea di come gli affreschi potevano apparire prima che il processo di ossidazione cominciasse: “La qual opera, veramente grandissima e ricca e benissimo condotta, dovette, per mio giudizio, fare in quei tempi stupire il mondo […] ed a me, che l’anno 1563 la rividi, parve bellissima, pensando come in tante tenebre potesse veder Cimabue tanto lume”.

Tra gli allievi che aiutarono Cimabue ad affrescare la Basilica c’era un certo Ambrogio di Bondone, detto anche Giotto, che di lì a poco diventerà l’emblema dell’allievo che supera il maestro. Egli è considerato da molti uno dei padri del Rinascimento. La maestria e l’innovazione che egli portò rispetto ai suoi predecessori è più che mai evidente negli affreschi della Basilica. In special modo nel ciclo di affreschi delle Storie di San Francesco che ricopre la fascia inferiore della navata.

Vi consigliamo di cercare e di sostare un attimo in più di fronte alla scena della famosa “Predica agli uccelli”; poi passare alla “Conferma della Regola”, che narra l’episodio in cui Francesco consegna i dettami dell’ordine da lui fondato a Papa Innocenzo III. Il pittore fiorentino modificò il dipinto all’ultimo momento, costretto dalla curia, raffigurando Francesco in ginocchio, piuttosto che in piedi. Per quanto grande era la rivoluzione che il Poverello stava attuando, essa comunque doveva sottostare e non doveva mettere in dubbio il potere della Chiesa.

Poi il “Presepe di Greccio”, che narra la storia del primo presepe al mondo, voluto da Francesco. Osservate i frati che cantano nel coro: per la prima volta in assoluto nella storia della pittura, si vedono i denti di una persona. Poi spostatevi verso la parte superiore della parete sinistra della navata, dove Giotto dipinse la “Deposizione dalla Croce”. Osservate l’espressività dei volti attoniti e disperati che guardano il corpo inerme di Cristo e confrontatela con quella dei volti dipinti da Cimabue.

Proviamo a rendere l’idea. Per un fedele del XIV secolo entrare nella Basilica di san Francesco e veder gli affreschi di Giotto sarebbe un po’ come entrare oggi in una chiesa e vedere le immagini dei dipinti staccarsi dal muro. Come ologrammi che girovagano per la chiesa. Nessuna immagine si accostava alla realtà più di quegli affreschi.

Sempre dall’interno della Basilica di san Francesco si può accedere e visitare il Sacro Convento. Coevo alla Basilica Inferiore, ospita la residenza papale. La struttura, avendo avuto anche l’uso di fortezza, è solida e pesante. Con i continui lavori di ampliamento effettuati durante gli anni, si dovette ricorrere a delle misure di sostegno esterne. Per questo furono eseguite le maestose cinquantatré arcate di sostegno, cominciate a costruire nel 1300 e finite un secolo dopo, visibili da chilometri e chilometri.

All’interno della residenza papale è ospitato anche il Museo del Tesoro, un’importante raccolta di arte e oreficeria sacra medievale. Nato alla metà del 1200 per volere di Gregorio IX. Qui vi sono conservati alcuni degli oggetti più belli e preziosi donati all’Ordine Francescano nel corso del tempo. Il Calice di Guccio di Mannaia, messali e breviari sacri, e la collezione Perkins, donata negli anni’50 dallo storico dell’arte Frederick M. Perkins, nella quale sono comprese delle bellissime tavole dipinte di Pietro Lorenzetti, Lorenzo Monaco e del Sassetta.

La piccola Cappella di Santa Maria degli Angeli alla Porziuncola, che potete vedere ancora intatta all’interno della Basilica, fu eretta secondo la tradizione da quattro reduci dalla Guerra Santa che riportarono in patria un frammento della tomba della Madonna, nella piana boscosa sottostante Assisi, detta appunto Cerreto della Porziuncola. Lì, in certe giornate autunnali, il vento forte che spazza via ogni nuvola dal cielo, passando fra le fronde degli alberi, sembrava somigliare al canto degli angeli. La cappella fu gestita dai monaci benedettini di San Benedetto al Subasio a partire dal X secolo. Probabilmente questo luogo sarebbe stato completamente dimenticato se le strade di Francesco e Chiara non lo avessero incrociato. Grazie a loro oggi possiamo vedere la Porziuncola intatta, com’era più o meno mille anni fa. Ma al posto della chiassosa boscaglia c’è un’enorme basilica, costruita fra il ‘500 e il ‘600, che la ingloba e la protegge come una mamma premurosa. Vista così, dall’interno della pancia, sembra ancora più piccola, incredibilmente piccola.

La Chiesa fu donata al Santo poverello dagli stessi monaci benedettini per istituire il campo base del costituendo ordine Francescano. Quando Francesco passò qui per la prima volta la chiesa era in stato di abbandono e la sua agiografia narra che dedicò il terzo anno dopo la sua conversione interamente alla ristrutturazione della piccola cappella. Proprio qui egli realizza leggendo il Vangelo che la sua missione non era restaurare gli edifici religiosi cadenti, ma restaurare e predicare il Regno di Dio tutto, vivendo in povertà, penitenza e semplicità. Da qui Francesco e i suoi confratelli partivano per portare il proprio messaggio in giro per l’Italia, e qui sempre facevano ritorno. Nella notte del 1211 bussò alle porte della Porziuncola Chiara d’Offreduccio, disperata e terrorizzata, scappata di casa e dalla sua aristocratica famiglia. Qualche giorno più tardi in questa cappella ella prese i voti e fece la sua promessa di penitenza per essere consacrata a Dio e iniziare il suo viaggio spirituale, che la portò a fondare il movimento femminile francescano delle Clarisse e divenire la santa più importante della città.

Nella Porziuncola nel 1216 venne istituito per la prima volta il “Perdono di Assisi”, un rituale di indulgenza plenaria nel quale si stabiliva che chiunque entrasse all’interno della Chiesa con sincero spirito di pentimento sarebbe stato dopo la confessione istantaneamente assolto da tutti i peccati commessi. L’indulgenza era una pratica frequente all’interno della Chiesa cristiana durante il Medioevo, ma fino ad allora per ricevere l’assoluzione era necessario pagare un “obolo”, cioè un corrispettivo di denaro che potevano permettersi solo i ricchi, compiere un lunghissimo pellegrinaggio nei luoghi più importanti del Cristianesimo come la Città Santa, oppure eseguire speciali pratiche di mortificazione della carne, per esempio il digiuno forzato o dormire su un letto di ortiche. Francesco riuscì ad ottenere questa straordinaria “deroga” presentandosi di persona da Papa Onorio III e convincendolo della santità della sua richiesta. Tornato ad Assisi, da un pulpito montato appositamente all’esterno della Porziuncola, fece il glorioso annuncio davanti a migliaia di persone in visibilio. Il “Perdono di Assisi” fu una pratica controversa e molto dibattuta all’interno della Chiesa nel corso della storia. La regola fu nel corso del tempo modificata molte volte. Prima fu estesa a tutte le chiese francescane, poi a ogni chiesa parrocchiale ma il rituale venne ridotto a due soli giorni all’anno: il 1° e il 2 agosto. Nel 1988 la Penitenzieria Apostolica stabilì che all’interno della Porziuncola l’indulgenza poteva essere ricevuta in ogni giorno dell’anno, riconfermando l’importanza straordinaria che questo luogo detiene per il mondo cristiano.

All’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli, a qualche passo dalla Porziuncola, vi è il luogo dove Francesco volle essere portato per passare i suoi ultimi istanti di vita, e scrivere l’ultimo verso del suo Cantico delle Creature: la Cappella del Transito. In questo angusto spazio, ciò che rimane dell’infermeria del vecchio convento che venne costruito per ospitare i frati, Francesco venne assistito fino all’ultimo respiro, avvenuto la notte del 3 ottobre 1226. Nella Cappella vi sono alcuni affreschi eseguiti da un allievo del Perugino, detto lo Spagna. Dietro l’altare c’è una splendida e commovente statua di Francesco modellata da Andrea della Robbia, uno dei più caratteristici ceramisti del Rinascimento. Inoltre, sempre all’interno della Cappella, è custodita un’importante reliquia del Santo, il cingolo, cioè la corda con la quale Francesco si stringeva alla vita il suo saio.

La notizia del Perdono d’Assisi si diffuse in Italia e in Europa velocissima e già a partire dai giorni direttamente successivi all’annuncio di Francesco la Porziuncola diventò meta di pellegrinaggi continui. Nella seconda metà del ‘500 il flusso di pellegrinaggi è talmente alto che venne deciso di ampliare la chiesa e costruire altre strutture ricettive. Su progetto di Galeazzo Alessi, nacque la maestosa Basilica di S. Maria degli Angeli, lunga 126 metri e larga 65, in grado di ricevere le centinaia di migliaia di pellegrini che la visitavano ogni anno. Il progetto fu così ambizioso che la costruzione della chiesa durò più di un secolo.

In realtà noi oggi riusciamo a vedere molto poco dell’originale progetto del grande architetto perugino. L’Ottocento fu un secolo molto buio per la Basilica: prima i saccheggi effettuati dall’esercito napoleonico e poi il violentissimo terremoto del 1832 devastarono in gran parte l’edificio. La cupola progettata dall’Alessi crollò rovinosamente sopra la Porziuncola, che rimase intatta come per miracolo. Negli anni successivi i lavori di ristrutturazione cambiarono abbastanza la conformazione della chiesa. La facciata, che culmina con la caratteristica statua della Madonna in bronzo dorato, è stata ultimata nel 1930. Del progetto originale rimangono solo l’abside e la cupola, ricostruita in soli otto anni dal suo crollo. All’esterno, sulla parete sinistra della Basilica che affaccia sulla via per Assisi, vi è addossata la Fonte delle 26 cannelle. Una fontana che corre per quasi tutta la lunghezza della parete fatta costruire dalla famiglia Medici nel 1610, anche loro grandi devoti di S. Francesco. Nelle decorazioni che abbelliscono in maniera alternata i becchi di fuoriuscita dell’acqua potrete scorgere uno scudo con sei sfere in rilievo. Tale simbolo rappresentava proprio lo stemma della famiglia fiorentina, con cui erano conosciuti in tutta Europa.

L’interno della Basilica, diversamente da quello dell’omologa Basilica di San Francesco, è semplice e scarno, non molto decorato, in piena armonia con i principi della Regola francescana. È composto da tre navate e ogni navata laterale ospita cinque cappelle, le uniche zone della Basilica con affreschi e decorazioni, commissionate nel corso degli anni da famiglie nobili devote o da istituzioni comunali.

La Porziuncola è posta al centro esatto della basilica di Santa Maria degli Angeli come un solido nucleo da cui tutto si sprigiona. Al suo interno, sulla parete dietro l’altare, vi è una tavola che dipinse Ilario da Viterbo nel 1393 che narra le vicende del Perdono d’Assisi. La storia, che come abbiamo visto si conclude con un glorioso annuncio davanti a migliaia di persone, comincia in realtà a qualche metro di distanza dalla chiesetta, nel roseto di un cortile adiacente alla Basilica. Secondo l’agiografia la visione che spinge Francesco ad andare a chiedere al Papa l’indulgenza del Perdono è anticipata da una grossa e misteriosa tentazione che il frate si trova ad affrontare mentre era assorto in un momento di preghiera. Per non cadere nella trappola egli si spogliò e si gettò nel roseto, che istantaneamente perse tutte le spine. Ancora oggi la “Rosa Canina Assisiensis“, che cresce in quella parte del convento, non presenta traccia di spine. La cappella che sorge in prossimità del roseto, innalzata in memoria di questo evento miracoloso, conserva in una grotta sotterranea le travi che si dice formarono il pulpito dal quale Francesco annunciò il Perdono.

Sebbene non ci siano famose opere d’arte in questo luogo, la Basilica e la Porziuncola costituiscono un’esperienza di visita unica, che si può vivere anche solo immaginando le storie e i personaggi che hanno attraversato in più di un millennio questi spazi. Dall’esterno o dall’interno della Basilica, con un po’ di fantasia, è possibile rivedere le scene delle adunate oceaniche che inondavano la chiesa per la ricorrenza del Perdono; oppure all’interno della Cappella della Porziuncola potrete rivivere l’intimità della consacrazione di Chiara, appena diciottenne, spogliata e totalmente abbandonata a Dio, mentre Francesco le taglia i capelli alla luce di fioche e tremolanti lanterne a olio.

Ma se ciò non bastasse, la Basilica di Santa Maria degli Angeli riserva ancora  delle sorprese per scoprire le quali vi basterà dirigervi verso il Museo della Porziuncola. Il museo ospita alcuni capolavori dell’arte cristiana e francescana, a partire dall’antichissimo crocifisso di Giunta da Pisano, datato 1236, uno dei primi crocifissi in cui è raffigurato il cristo patiens, cioè umanizzato e sofferente, contrario allo stile predominante dell’epoca ‒ di ispirazione greco-bizantina ‒ del cristo Triumphans glorioso e trionfante pur nell’atto della sua crocifissione. Possiamo considerare Giunta da Pisano, insieme a Cimabue e Giotto, uno dei massimi innovatori dell’arte medievale, tra i primi che gettarono le basi per l’arte rinascimentale. Tra le tante opere d’arte e oggetti preziosi il museo conserva due tavole dipinte che raffigurano entrambe S. Francesco, la cui storia, come spesso accade, si mescola con il mito. La prima è del Maestro di San Francesco, la misteriosa mano che produsse anche molti affreschi all’interno della Basilica di San Francesco, ed è la più antica immagine di Francesco mai trovata, risalente alla metà del 1200. Collocata inizialmente nella Cappella del Transito, si dice che l’opera sia stata dipinta sulla stessa tavola dove Francesco usava coricarsi e sulla quale ha esalato l’ultimo respiro. La seconda tavola è attribuita a Cimabue per la straordinaria somiglianza al ritratto del Santo che il maestro fiorentino dipinse nella Maestà della Basilica inferiore di S. Francesco, il ritratto più fedele di cui disponiamo. Anche qui il mito vuole che la tavola che costituisce la base del dipinto sia stata il coperchio del feretro nel quale inizialmente venne custodita la salma di Francesco. In una delle sei sale di cui è composto il museo troverete anche un’altra pregevole opera di Andrea della Robbia: un dossale di lucente terracotta invetriata, datato 1475 circa, che raffigura scene sacre e storie francescane, fra cui anche la scena in cui San Francesco riceve le stimmate, nel Santuario di La Verna. Storia, arte, spiritualità e mito, la ricetta perfetta per un’esperienza unica.

Scendendo da Piazza Matteotti, uno dei punti più alti del tessuto urbano assisano, verso il centro della città la prima piazza che si incontra è quella di San Rufino. Si accede in discesa da un piccolo arco oltrepassato il quale la piazza si apre di fronte a noi, vagamente semicircolare, dalla quale si diramano a raggiera le stradine che penetrano nel cuore del centro storico. La Cattedrale di San Rufino ci appare di soppiatto, a sorpresa, incassata nel fondo opposto della piazza, nascosta alla vista di chi entra dagli edifici che corrono contigui ai bordi della facciata e che ne delimitano lo spazio antistante, come se questa costituisse la scenografia di un enorme palcoscenico. Il nostro corpo in discesa è naturalmente teso ad andare avanti, mentre i nostri occhi rimangono volti indietro attratti dal candore calcareo di tale scenografia che si scopre alle nostre spalle ‒ da alcuni considerata una delle facciate più belle del suo tempo ‒ costringendo l’osservatore a fermarsi per non torcersi l’osso del collo. Se passate di lì nel tardo pomeriggio autunnale l’effetto sarà ancora più accennato, perché le simmetrie e le geometrie perfette della facciata si dipingeranno di un arancione fuoco, che il calare della sera piano piano pulirà via.

Rufino d’Assisi è il santo patrono e fu il primo vescovo della città. Egli morì martire nel III secolo d.C. Visse sotto l’Impero Romano e la sua agiografia racconta di un lungo viaggio di predicazione del Vangelo che lo vide partire dall’attuale Turchia, approdare in Italia negli Abruzzi, la terra dei Marsi, per poi stabilirsi ad Assisi e diventare vescovo. All’epoca la religione cristiana non era tollerata dalle istituzioni imperiali, così il proconsole Aspasio lo perseguitò senza sosta, e dopo averlo catturato gli fece confessare la sua fede. Rufino fu condannato a morte e la tradizione vuole che proprio durante la sua esecuzione ‒ la sua prima esecuzione ‒ dimostrò la sua santità. Uscì infatti indenne dal rogo al quale fu inizialmente condannato, per cedere alla morte soltanto a un secondo tentativo, quando fu gettato nel fiume Chiascio legato ad un grosso macigno. I suoi fedeli ritrovarono il corpo a valle, dove oggi sorge il paese di Costano nel comune di Bastia Umbra. Il Santuario del Crocifisso che sorge all’interno delle mura antiche del piccolo borgo ricorda quest’evento. All’interno del Santuario, la pietra grezza che costituisce il piano dell’altare è additata come la stessa che fu corresponsabile dell’annegamento del Santo. Dopo il suo ritrovamento la salma fu traslata nel luogo dove si innalza la candida cattedrale odierna.

Ma la chiesa che vediamo oggi non è che la terza, in ordine di tempo, che venne costruita in quel sito così importante per il culto cittadino. I lavori per la versione definitiva della chiesa furono avviati nel 1100 dall’architetto Giovanni da Gubbio, ma la versione precedente che risale agli inizi dell’anno Mille, è legata a una affascinante storia di epica popolare. Il vescovo Ugo volle disseppellire il sarcofago che si pensava contenesse le sacre spoglie di Rufino e trasportarlo alla chiesa principale, Santa Maria Maggiore, dove all’epoca risiedeva la sede vescovile. Il popolo, che considerava quel luogo come custode di una grande potenza spirituale, protestò aspramente, tanto da arrivare al conflitto con le milizie della curia. Secondo il mito fu una miracolosa intercessione del Santo a risolvere la diatriba. Lo scontro fra il popolo e le milizie non provocò spargimenti di sangue e quando quest’ultime, avuta la meglio, si apprestarono a caricare il sarcofago per la traslazione, trovarono una sorpresa. Il contenitore di marmo bianco scolpito rimase inspiegabilmente bloccato a terra. Sessanta militari non poterono nulla per muoverlo, ma bastarono solamente sette persone del popolo per alzarlo da terra. Il miracolo era evidente, tanto che il vescovo Ugo presto si convinse a cambiare idea. Ordinò di abbellire e ingrandire la Cattedrale e nel 1035 spostò lì la sua sede vescovile.

All’interno la struttura della cattedrale di San Rufino che vediamo oggi fu disegnata nel 1500 dal grande architetto umbro Galeazzo Alessi. Essa è divisa in tre navate separate da maestose campate a tutto sesto, rette da pilastri a base quadrata. Nella navata destra è posto un antichissimo fonte battesimale di marmo, dove la tradizione vuole sia stata bagnata la testa di tutti i grandi protagonisti della storia di Assisi: da San Francesco, a Santa Chiara, a Federico II di Svevia. Più avanti, all’altezza della terza campata, troverete la sontuosa Cappella del Santissimo Sacramento, la più grande opera barocca in città.

Passando alla navata sinistra percepirete molto bene l’antichità di questo luogo. Nel punto dove si innalza la prima campata è stata lasciata scoperta dagli ultimi lavori di restauro l’anima più remota della cattedrale di San Rufino. Lì compare la base murale di una cisterna romana sulla quale si poggia l’edificio. Troverete delle iscrizioni riportanti i nomi degli uomini che ne ordinarono la costruzione, i marones, cioè i magistrati autoctoni che si occupavano di governare la città per conto della Repubblica.

Se volete inoltrarvi ancora di più nelle viscere storiche di questo posto non dovete far altro che scendere all’interno della cripta, dove d’un tratto vi troverete catapultati all’anno Mille in mezzo all’aspra diatriba fra il vescovo Ugo e il popolo Assisano. Qui avvennero gli scontri di cui narra la storia e il sarcofago che vi è conservato è proprio lo stesso che compì il volere collettivo, così pesante per i cattivi e così leggero per i giusti. La cripta era uno dei luoghi scelti da Francesco per il raccoglimento in preghiera, come lo era anche un piccolo spazio sotterrano al di sotto della sagrestia della Cattedrale di San Rufino, chiamato l’Oratorio di San Francesco. Si narra che proprio in quel luogo il Santo si ritirava per la meditazione prima delle prediche nella soprastante chiesa. La cripta è inserita all’interno del percorso espositivo del Museo Diocesano, inaugurato nel 1941, che comprende inoltre gli spazi espositivi del Palazzo dei Canonici con i suoi sotterranei e il chiostro dell’adiacente Cattedrale. Il museo ospita i rarissimi esempi di pittura alto medievale rimasti in città ed è il miglior posto, insieme al Foro Romano e alla Collezione archeologica, dove scoprire le tracce della città antica, romana e pre-romana, come capitelli, epigrafi e altri oggetti lapidei. Alcune sale, inoltre, contengono pregevoli opere rinascimentali e prerinascimentali tra cui gli affreschi del Maestro di S. Chiara e una magnifica opera di Niccolò Liberatore detto l’Alunno, uno dei protagonisti del rinascimento umbro insieme al Perugino e al Pinturicchio: il Polittico di San Rufino, nel quale il pittore folignate narra la vicenda del Santo patrono e del suo martirio.

Poco sotto la Piazza del Comune sorgeva una vecchia casa di proprietà di un Assisano, Giambattista Bini. Fin dalla fine del Trecento il sito era meta di pellegrinaggio perché alcuni documenti attestavano che la proprietà fosse andata in eredità a un nipote di Francesco, Piccardo D’Angelo. Tali evidenze fecero supporre che quella fu proprio la casa dove il figlio del ricco mercante di tessili Pietro di Bernardone passò la sua infanzia e ricevette l’ispirazione per le sue future sante missioni. Il Bini non sembrava essere molto interessato alla storia di quel luogo così importante, perciò all’inizio del Seicento la struttura versava in uno stato di parziale abbandono. L’allora Ministro generale dei Frati minori, lo spagnolo Antonio de Trejo, ne riconobbe invece l’importanza, ma l’Ordine non vedeva in quel periodo lo splendore dei secoli passati e non c’erano soldi a disposizione per qualsiasi tipo di intervento che ridesse vita e un po’ di dignità alla casa natale di Francesco. Il frate però non si diede per vinto e cominciò una lunga serie di fitte corrispondenze e appelli alla carità di facoltosi e devoti benefattori. Il culto di S. Francesco era molto diffuso all’epoca nel cristianissimo regno di Spagna, ma Antonio de Trejo non poteva nemmeno immaginare che uno dei primi uomini che risposero al suo appello fu nientedimeno che il Re in persona, Filippo III. Il 27 novembre 1614 l’Ambasciatore spagnolo della Santa Sede inviò direttamente al Re la richiesta del Ministro generale di una straordinaria elemosina di 6.000 ducati per acquistare la casa e trasformarla in un santuario. Il re di sua mano sottoscrisse la richiesta accompagnata da un eloquente: “Como os parece”. La chiesa eretta sopra la ex casa di Giambattista Bini prese la denominazione di “S. Francesco Converso”, ma nessuno la chiamò mai così. Fin dagli albori della sua costruzione gli Assisani la battezzarono come “Chiesa Nuova” e così rimase fino ai nostri giorni. Il nome stesso ci fa riflettere sul numero delle chiese presenti in età medievale in città, talmente alto al punto che la costruzione di una chiesa nella prima metà del ‘600 fosse un avvenimento così unico e singolare che fosse bastato l’aggettivo “nuova” ad identificarla.

La chiesa è costruita e decorata in stile barocco e questo ben caratterizza la sua “novità” rispetto alle altre chiese romaniche e gotiche che in maggioranza occupano Assisi. All’esterno, la facciata a mattoncini rosa, le lesene decorative e il portale in travertino bianco testimoniano bene questa differenza. Altra diversità rispetto alle precedenti chiese della città è la pianta ‒ a croce greca e non a croce latina ‒ e le sontuose decorazioni dorate interne, quasi tutte in pittura, create dai più importanti artisti locali dell’epoca come Cesare Sermei e Giacomo Giorgetti. All’ingresso, in un angolo, qualcosa rimane a riverberare la memoria di questo luogo: una piccola nicchia, chiusa da una grata in ferro battuto con all’interno una statua di Francesco in preghiera, indica il luogo dove Pietro di Bernardone rinchiuse il figlio ribelle, colpevole di aver venduto tutte le sue stoffe e di aver donato il ricavato per la ristrutturazione del Santuario di San Damiano.

Fuori dal Santuario si accede infatti a ciò che resta dei luoghi dove Francesco visse la sua infanzia e dove i rapporti con il padre si incrinarono e furono compromessi per sempre. Scendendo alcuni gradini si raggiunge il piano terra della vecchia abitazione, la zona dove la famiglia lavorava e vendeva le proprie stoffe. Chinando lo sguardo a terra vedrete ancora la vecchia strada, perfettamente conservata, dove affacciava il negozio, poi inglobata dalle strutture della Chiesa.

Annessa al convento della Chiesa vi è anche una biblioteca che custodisce preziose rarità sul francescanesimo: codici miniati, pergamene, incunaboli, bolle e altri antichissimi documenti. Un totale di 16 mila volumi per un affascinante viaggio a ritroso nel tempo.

Nella continua ricerca dei luoghi appartenuti al Santo poverello, nel Trecento Piccardo D’Angelo riadattò un ambiente della casa creando un piccolo oratorio e sostenendo che fu proprio quella ‒ come ricorda un’iscrizione quattrocentesca sopra l’ingresso ‒ “la stalla di un bue e di un asino nella quale nacque S. Francesco, specchio del mondo”. In realtà la leggenda di Francesco che sarebbe nato in una stalla sotto consiglio dato alla devota madre da un misterioso mendicante, sebbene molto antica, non ha alcuna conferma dalle fonti storiografiche e non è menzionata nelle prime biografie del Santo, come quelle di Tommaso da Celano o Bonaventura da Bagnoregio. Ma ciò non toglie all’Oratorio di S. Francesco Piccolo quell’aura mistica e spirituale che anni di pellegrinaggio gli hanno riservato, come del resto accade  per tutti gli altri luoghi della città toccati dalla presenza, effettiva o riflessa, di uno dei personaggi più rivoluzionari della storia.

Se siete stanchi di girare per le stradine affollate di Assisi, c’è un luogo fuori dal centro in cui “visitare” non significa solo “osservare” e scoprire informazioni più o meno interessanti. Visitare questo posto, grazie alla sua storia, alla sua posizione e alla sua atmosfera, significherà “vivere” a tutti gli effetti un’esperienza unica. La vita qui è trascorsa molto più lentamente che fuori. Gli odori e i rumori che sentirete sono esattamente gli stessi che lo pervadono da ottocento anni. Vi accorgerete che all’Eremo delle Carceri, circa cinque chilometri dal centro salendo verso il Monte Subasio, la pace, la contemplazione e la spiritualità che pervadevano gli ambienti francescani nel Medioevo sono tangibili come in nessun’altro luogo.

In antichità il latino carceres non indicava solo un luogo di punizione ma anche un luogo di ritiro, di penitenza e di solitudine. Era questo quello che facevano Francesco e i suoi frati quando raggiungevano la minuscola Cappella di S. Maria e si ritiravano nelle grotte e negli anfratti naturali che la montagna offriva lì intorno per pregare e meditare. Solo la Cappella indicava inizialmente quel luogo, donata a Francesco ‒ come del resto la stessa Porziuncola ‒ dai Monaci benedettini del Subasio. Più tardi, i frati vi costruirono lì vicino un piccolo oratorio e nel Quattrocento, per volere del Ministro Generale dell’Ordine S. Bernardino da Siena, la minuscola Cappella divenne una ‒ altrettanto minuscola ma più strutturata ‒ chiesa e fu aggiunto il chiostro triangolare che affaccia sulla valle e sulla schiena boscosa della montagna. Nel corso del tempo i Frati minori, i quali custodiscono l’Eremo da sempre, aggiunsero altre strutture al piccolo complesso che prese la sua finale conformazione nell’Ottocento. Da una parte la Regola che obbligava i frati a progettare edifici semplici e grezzi, dall’altra la loro ingegnosità e creatività, hanno permesso la produzione di questo straordinario complesso che a tratti sembra emergere, a tratti confondersi con la roccia sulla quale è stato costruito.

Oggi è possibile visitare gli ambienti originali come la Cappella, l’Oratorio e le grotte che Francesco e i suoi primi compagni scelsero per trascorrere i momenti di solitudine e meditazione. La Grotta di Francesco, la prima che si incontra scendendo dalla Cappella e inoltrandosi verso il bosco, ospita due soli elementi di “arredo”, anch’essi fatti naturalmente di pietra: un pianale, utilizzato per dormire, e un masso, probabilmente utilizzato come seduta. Un piccolo foro sul pavimento della grotta indica il punto dove la tradizione vuole che il Diavolo sprofondò dopo aver tentato più volte il Santo. Fuori dalla grotta si snoda un sentiero attraverso i lecci secolari lungo il quale è possibile trovare le altre grotte storiche, quelle in cui si ritiravano in preghiera Leone, Egidio, Silvestro, Bernardo da Quintavalle e Andrea da Spello. Uno dei lecci più antichi, segnalato con un cartello come risalente al periodo di Francesco, è stato identificato in passato come l’albero della famosa predica agli uccelli, episodio dell’agiografia del Santo che lo consacra, insieme alla composizione del Cantico delle Creature, come il primo uomo sulla terra a diffondere i principi dell’ambientalismo e del rispetto della natura. Oggi sappiamo che l’episodio della Predica non fu isolato ma si ripeté più volte in diversi luoghi. Le fonti storiche attestano che la predica più vicina ad Assisi non fu fatta all’Eremo delle Carceri ma nei dintorni di Cannara, piccolo borgo ai piedi della montagna. Continuando per il sentiero un ponte unisce due costoloni della montagna tra i quali si apre un profondo fosso. Secondo la leggenda il fosso ospitava inizialmente un corso d’acqua che Francesco avrebbe, tramite l’intervento divino, prosciugato perché di disturbo alla meditazione. In realtà alcuni studi hanno ipotizzato che data la conformazione carsica della montagna la sorgente situata a monte avrebbe un carattere intermittente, riattivandosi in media una volta ogni venti o trenta anni. La tradizione popolare ricollega tali accadimenti ad alcune disgrazie consumate negli anni e considera la riattivazione della fonte come un presagio funesto. Oltre il ponte è possibile salire alla Cappella di Santa Maddalena, sotto la quale nel 1477 fu sepolto Barnaba Manassei, frate francescano che istituì i Monti di Pietà, gli istituti di credito che per la prima volta aprirono le porte anche ai cittadini più poveri.

L’Eremo delle Carceri è un luogo di complessi intrecci che dà la possibilità a chi lo visita di vivere un’esperienza che va oltre l’aspetto turistico. La storia si mischia alla leggenda, la natura abbraccia la spiritualità e, soprattutto, il passato si confonde con il presente. L’esistenza che scorre dentro e fuori le mura nude e severe del complesso è pressoché identica da secoli. Fermandosi ad osservare la vita condotta da un monaco oggi all’Eremo delle carceri avrete una delle rare e preziose possibilità che ci sono al mondo di guardare nel passato e di capire come Francesco aveva concepito la Regola di vita negli eremi, che seguendo le sue stesse parole, stabiliva così:

[136] Coloro che vogliono condurre vita religiosa negli eremi, siano tre frati o al più quattro. Due di essi facciano da madri ed abbiano due figli o almeno uno. I due che fanno da madri seguano la vita di Marta, e i due che fanno da figli quella di Maria.

[137] E questi abbiano un chiostro, nel quale ciascuno abbia una sua piccola cella, nella quale possa pregare e dormire. E sempre recitino compieta del giorno, subito dopo il tramonto del sole, e cerchino di conservare il silenzio e dicano le ore liturgiche e si alzino per il mattutino, e prima di tutto ricerchino il regno di Dio e la sua giustizia. […] E quei frati che fanno da madri procurino di stare lontani da ogni persona e, per obbedienza al loro ministro, custodiscano i loro figli da ogni persona, così che nessuno possa parlare con essi. E questi figli non parlino con nessuna persona se non con le loro madri e con il ministro e il loro custode, quando piacerà ad essi di visitarli, con la benedizione del Signore Iddio.

[138] I figli però talora assumano l’ufficio di madri, come sembrerà loro opportuno disporre per un necessario avvicendamento, e cerchino di osservare con attenzione e premura tutte le cose sopraddette. […]

(Fonti Francescane, Regola di Vita negli eremi)

Il nostro consiglio? Acquistate una mappa dei sentieri del Monte Subasio e uscendo dalla parte orientale di Assisi inoltratevi per uno dei numerosi percorsi all’interno del parco che portano all’Eremo delle carceri. La fatica della salita non rovinerà la bellezza di ciò che avrete intorno e anzi, una volta raggiunta la meta, come migliaia di persone hanno fatto prima della costruzione della strada asfaltata nel secolo scorso, tutto acquisterà un sapore più autentico.

La Chiesa di Santa Maria Maggiore è un’altra antica e preziosa testimonianza della profondità storica di questa città. Il luogo dove sorge la Chiesa è incredibilmente stratificato e in pochi altri luoghi è possibile ripercorrere così tanta storia, soprattutto così ben conservata, in sette metri di altezza. Questo luogo, ancora tutto da esplorare e da studiare, è stato una casa, appartenuta a un ricco personaggio cittadino, probabilmente un poeta; è stato un probabile tempio pagano per poi diventare una chiesa paleocristiana, fondata secondo la tradizione dal vescovo Savinio nel IV secolo, che ha cambiato molte volte la sua immagine fino ad arrivare al XII secolo, nel quale prenderà la conformazione che oggi possiamo vedere. A testimonianza della sua versione definitiva possiamo leggere una iscrizione posta sull’unico rosone della facciata: “ANNO DOMINI 1162 IOHANNES FECIT”. Lo Iohannes che viene citato nell’iscrizione è probabilmente lo stesso Giovanni da Gubbio che progettò qualche anno prima, la Cattedrale di San Rufino.

In questo luogo dove ‒ come del resto in tutta Assisi ‒ la storia è tenacemente intrecciata con il mito, è avvenuto uno degli eventi più importanti della vicenda Francescana: la “Spogliazione”, il momento che rappresenta la totale conversione di Francesco alla missione cristiana. Il vescovo Guido, amico del giovane e rampante aristocratico, che in questo luogo si spoglierà simbolicamente e fisicamente di ogni suo bene, è uno dei protagonisti della storia. La Spogliazione avvenne durante un processo nel quale Francesco era imputato e fu indetto negli spazi della sede vescovile, che all’epoca si trovava proprio in Santa Maria Maggiore. Pietro di Bernardone accusava pubblicamente il figlio per aver sperperato molti beni della famiglia senza il suo permesso per donarli ai poveri, sperando che il giudizio della pubblica piazza potesse fargli ritornare il senno. In tutta risposta Francesco si spogliò, completamente nudo, consegnò i vestiti al padre come ciò che di ultimo gli apparteneva e con la celeberrima frase compì il passo per il ricongiungimento definitivo a Dio: «Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza». Mentre il vescovo Guido si affrettava a coprirlo con il suo mantello e la folla lo acclamava, Pietro di Bernardone capì che non poteva più avanzare accuse, perché Francesco non era più suo figlio. Molti hanno raccontato la Spogliazione nel corso dei secoli, chi c’è riuscito meglio è forse Giotto, che dipinse la scena nel suo ciclo di affreschi sulle storie del Santo nella Basilica Superiore di San Francesco. Non è dato sapere quale fu il luogo preciso in cui si svolse il processo. Le voci si dividono in tre ipotesi: nella Sala del Trono del Palazzo Vescovile, oggi Sala della Spogliazione, nel chiostro antistante o direttamente all’esterno, nel piazzale davanti la chiesa. Tutti e tre gli ambienti sono aperti al pubblico. Visitandoli potrete farvi voi stessi una personale ipotesi su dove accadde la vicenda.

La facciata, di stile romanico, presenta come unici elementi decorativi, il rosone a otto bracci e due linee di costolatura verticale, le quali ripartiscono i tre spazi che poi coincideranno all’interno con quelli suddivisi dalle navate. A terra due timidi portali ‒ uno grande al centro, uno piccolo piccolo sulla sinistra ‒ sono gli unici spazi d’accesso e gli unici elementi che interrompono quel roseo mare di pietra. Santa Maria Maggiore ha uno stile di costruzione straordinariamente semplice, e rappresenta forse l’idea più vicina a quella di chiesa francescana esistente ad Assisi. Infatti una pietra posta sul retro, all’esterno dell’abside, ci dice che furono eseguiti dei lavori di ristrutturazione nel 1216, anno in cui Francesco era vivo e, data la sua vicinanza con il vescovo Guido, avrebbe potuto in qualche modo influenzarne l’aspetto secondo i suoi canoni.

L’interno è, come si diceva, composto da tre navate e puntinato di affreschi, o di ciò che ne resta. Molte delle opere che ricoprivano le pareti e le colonne della chiesa si sono staccate nel corso dei secoli e ciò che rimane sembra essere disposto in ordine casuale sullo stucco bianco che si alterna al nudo mattone, come le ultime foglie che rimangono caparbiamente attaccate ai rami d’inverno. Alcuni dei soggetti dipinti, da datarsi a partire dal XIV secolo, sono chiari e riconoscibili, altri sono semplicemente macchie di colore che il tempo fa fatica a lavare via. Scendendo nella cripta si percorre la prima tappa a ritroso nel tempo che ci conduce all’interno della basilica paleocristiana. Sotto le basse volte di mattoni sono visibili alcuni capitelli romani e un sarcofago in pietra di epoca longobarda risalente al IX secolo. Continuando la discesa si accede per la cripta a un ulteriore livello stratigrafico, emerso nella seconda metà del XIX secolo durante degli scavi portati avanti da studiosi locali.

Ciò che ci si trova davanti sono i resti di una domus, una casa romana, più precisamente gli spazi di un criptoportico, cioè il passaggio di servizio seminterrato o coperto che in antichità era utilizzato per collegare i vari ambienti di un edificio. Questo criptoportico è stato riconosciuto da alcuni come quello della casa dove visse durante gli anni della sua giovinezza Sesto Properzio, uno dei più grandi poeti della Roma imperiale.  Egli lavorò alla corte dell’Imperatore Augusto e passò alla storia grazie alle sue elegie, un particolare tipo di poesia di derivazione greca che verrà ripreso nel Medioevo e riportato in seguito a nuova vita da autori come Carducci, Leopardi, D’Annunzio e Goethe. In realtà la teoria della appartenenza della casa al poeta elegiaco è avvolta nel mistero.  La tesi è supportata dall’analisi di un graffito ritrovato lungo le pareti della domus, lasciato da un visitatore due secoli dopo la probabile costruzione per lasciare il segno della propria presenza, un po’ come quelli incisi sugli alberi dagli innamorati. Quello che oggi potrebbe essere considerato un atto vandalico è paradossalmente diventato dopo millesettecento anni una testimonianza di importanza inestimabile. Il graffito non è perfettamente leggibile e presenta alcune mancanze, ma è stato interpretato così: “Il 22 febbraio dell’anno 367, sotto i consoli Giovino e Lupicino, ho baciato la casa della musa”. Margherita Guarducci, che scoprì il graffito e si occupò dello studio e degli scavi negli anni Settanta, sosteneva che la parola “musa” simboleggiasse lo spirito della poesia, perciò poteva essere una traduzione metaforica di “poeta”. L’idea è che quella casa nel IV secolo fosse già considerata un luogo legato al culto del grande poeta nato ad Assisi, meta di curiosi ed estimatori. Magari un museo ante litteram, o un tempio, un luogo pubblico in ogni modo e non privato, dove chi entrava aveva la possibilità di lasciare un graffito come quello. In più, durante gli scavi, furono ritrovati all’interno della domus dei frammenti di una lapide che accenna ad un uomo di nome “Sex. Propertius” (Sextus?) come committente del teatro della città.

Per sapere di chi o cosa fossero precisamente questi ambienti dovremo aspettare ancora qualche tempo, ma ciò non toglie la straordinaria bellezza della loro fattura. La parte della domus riemersa dalla terra, cioè quella addossata alle antiche mura romane e medievali, è costituita da quattro ambienti principali, tre sale e un lungo corridoio. Le decorazioni del pavimento e delle pareti sono estremamente ben conservate e facilmente distinguibili. A terra preziosi tasselli di marmo pregiato sono disposti secondo la tecnica dell’opus sectile a formare colorati motivi geometrici. Anche gli affreschi, che oltre le pareti arrivavano probabilmente a ricoprire anche il soffitto, mantengono il colore estremamente vivido. Una menzione particolare va al viridarium: un affresco che occupa una nicchia all’interno del corridoio in cui è rappresentato un giardino bucolico formato da rami con piccoli fiori rossi a forma di cuore, dove sono posati novantasei uccellini cinguettanti. Due dei disegni affrescati sono ben riconoscibili: il primo, una rappresentazione mitologica di Apollo, dà un’ulteriore prova alla teoria che qui ci fu anche un tempio oracolare; il secondo ha creato molti problemi agli studiosi e presenta due figure umane delineandone i volti, come in un primo piano: una tecnica del tutto inusuale e mai riscontrata in nessun altro caso.

Se tutti questi misteri vi confondono troppo, potete sempre uscire verso i giardini esterni della Chiesa, dove prendere una boccata d’aria, osservare i resti dell’antica cinta muraria e far riposare la mente perdendovi nel panorama della valle.

A partire dalla fine del XIII secolo il nascente Comune di Assisi comperò tre edifici posti sul lato meridionale della Piazza Maggiore, oggi Piazza del Comune, per accorparli e dar vita a un unico grande palazzo pubblico, che avrebbe dovuto ospitare gli organi istituzionali incaricati di governare la città. Palazzo dei Priori si presenta oggi come un elegante complesso di edifici in mattoni bianchi, costruito secondo il caratteristico stile dell’architettura assisiate medievale, perforato nel centro da una volta che lascia passare al suo interno una delle arterie principali del centro storico: Via dell’Arco dei Priori. Questa scende dalla piazza verso la valle e conduce alla Porta del Mojano sulla antica strada per Bettona. Il nome del Palazzo deriva dagli inquilini che lo abitarono a partire dagli anni Trenta del Trecento. I Priori erano i rappresentanti al governo delle Corporazioni delle arti e dei mestieri — l’equivalente delle odierne associazioni di categoria, però molto più potenti — e la loro magistratura era alloggiata al piano nobile del palazzo. Come si può ben intuire ancora oggi dalla struttura dell’edificio, al piano terreno vi era un loggiato che ospitava un’area per le botteghe da affittare ad artigiani e commercianti. L’affitto evidentemente era necessario per via degli altissimi costi di manutenzione del Palazzo e quelli di mantenimento dei suoi inquilini che, per far fronte a queste spese, non guardavano in faccia a nessuno. Nel retro del Palazzo, a piano terra, sulla “scarpa” di sostegno che serve a rinforzare la struttura, si trovano altre porte ad arco simili a quelle che si aprono sulla facciata principale, ma più piccole e discrete. È qui, nella parte più nascosta delle “retrobotteghe”, che fu istituito nel 1341 il bordello cittadino, spostato una ventina di anni dopo a Palazzo Nuovo, sotto la suggestiva Volta Pinta, decorata con raffinate grottesche nel XVI secolo.

Nel 1442 Niccolò Piccinino al soldo della nemica Perugia assediò Assisi con i suoi ventimila uomini e, riuscito a entrare attraverso un varco nell’acquedotto cittadino, mise a ferro e fuoco la città, non risparmiando neanche donne e bambini. Palazzo dei Priori non ebbe miglior sorte e fu gravemente danneggiato, ma presto ne fu ordinata la ricostruzione per volere di Papa Sisto IV e dei Cardinali Orsini e Savelli. Una lapide posta in alto sopra l’Arco dei Priori ne conserva la memoria. In quel tempo il Palazzo dei priori fu ampliato fino a comprendere, più a destra, il Monte di Pietà e la residenza del Governatore apostolico, direttamente inviato dal Papa per un maggiore controllo sui territori sui quali insistevano Perugia e Assisi, città notoriamente riottose e ribelli.

Le merlature guelfe che vedete sopra il tetto di uno degli edifici del complesso, come per i dirimpettai Palazzo del Capitano del Popolo e Torre civica, sono interventi posticci non risalenti al periodo medievale del Palazzo. Queste infatti furono realizzate in epoca fascista all’interno di un grosso intervento di rinnovamento della piazza commissionato per il settimo centenario della morte di S. Francesco.

All’interno il Palazzo dei Priori, che oggi ospita gli uffici dell’amministrazione comunale, conserva le splendidamente decorate Sale del Consiglio e degli Stemmi, costituite nella seconda metà dell’Ottocento quando Assisi fu annessa al Regno d’Italia, affrescate e arredate da Alessandro e Carlo Venanzi, eminenti artisti locali.

La Piazza del Comune è il punto più storicamente denso che potrete trovare ad Assisi. In questo crocevia dal quale si sviluppano le principali arterie del centro storico, sono concentrate testimonianze di tutte le epoche della città, dagli albori della civiltà romana fino ai giorni d’oggi. Sul lato Nord della piazza, disposti frontalmente alla verde valle assisana, si avvicendano senza soluzione di continuità il Tempio di Minerva, la Torre civica o Torre del popolo e il Palazzo del Capitano del popolo. Questi ultimi due edifici sono pressoché coetanei, sorti sul finire del XIII secolo, quando nella giovane realtà comunale di Assisi si instaurò per la prima volta una figura istituzionale che andava diffondendosi nell’Italia medievale: il Capitano del Popolo. Egli era il rappresentante del nascente ceto dei populares, composto per lo più da cittadini di bassa estrazione sociale che si erano arricchiti con i propri affari: mercanti, avvocati, giudici e chirurghi. Il Capitano del Popolo doveva fare da contrappeso politico al Podestà, altra figura del governo comunale, che rappresentava la nobiltà portatrice dei vecchi privilegi feudali e cavallereschi. Accanto a questi vi erano, a completare il consiglio, i rappresentanti delle Arti e dei Mestieri, più tardi conosciuti come Priori, e i Gonfalonieri, capi di compagnie militari armate provenienti dalle varie parrocchie della città.

Accanto al Palazzo svetta l’alta torre civica — circa 47 m — che fu inizialmente costruita per ospitare la famiglia del Capitano del popolo. Angelo di Latero da Perugia, Capitano in carica alla metà del Trecento, fece murare alla base della torre le misure di riferimento per i costruttori e i commercianti in vigore all’epoca. Ancora oggi possiamo vedere lo spessore dei mattoni, delle pianelle, dei quadrelli e dei coppi che venivano utilizzati in città. Accanto a questi sono disposte tre bacchette di ferro che determinavano le lunghezze della canna, del passetto e del palmo, con i quali si misuravano principalmente le stoffe negli scambi commerciali.

Nel XVI secolo la proprietà della torre fu ceduta per creare la Sala delle udienze del Collegio dei Notai, altra potente istituzione cittadina. Ne è testimonianza il portale, scolpito per l’occasione, dove in alto possiamo vedere i tipici strumenti di lavoro dei notai: il libro, la penna e il calamaio. Poco più tardi fu commissionato anche il portone ligneo sul modello del maestoso portone del Collegio del Cambio di Perugia.

Nel corso del tempo i locali della Torre e del Palazzo hanno cambiato molte destinazioni. Oggi una parte di questi sono occupati da una piccola caserma dei Carabinieri, a ricordare che l’edificio, dopo otto secoli, ricopre ancora un ruolo istituzionale all’interno della città. Entrando in Piazza del Comune subito la Torre cattura il nostro sguardo e ci lascia affascinati, sia per la sua altezza, sia per il suo manifesto aspetto medievale, conferito anche dalla vistosa merlatura ghibellina che decora i tetti dei due edifici contigui. L’ironia della sorte vuole che quel che caratterizza di più l’immagine antica di tali edifici sia in realtà il loro elemento più recente. Le merlature furono infatti parte di un “avventato” intervento di restauro, coordinato dall’architetto Ruggero Antonelli nel 1926 per la ricorrenza del settimo centenario della morte di S. Francesco, che coinvolse anche l’antistante Palazzo dei Priori. In origine, al contrario di quanto si possa pensare, i tetti di questi edifici non erano decorati da merlature — elementi architettonici utilizzati maggiormente su strutture di tipo difensivo e non amministrativo — ma da semplici spioventi a capanna. Un intervento anacronistico e, potremmo dire, un po’ “furbetto”, che sfrutta il nostro immaginario del medioevo per realizzare di fatto un intervento che toglie autenticità, ma senza dubbio aumenta l’impatto e la bellezza del luogo che visitiamo. Forse molti di noi avrebbero preferito un normale autentico tetto a spioventi a una suggestiva merlatura posticcia. Ora comunque lo sapete e potete valutare voi stessi, questo è l’importante.

La strada che si insinua tra le pieghe boscose e sale fino all’Eremo delle Carceri, lascia nascosta una delle più antiche ed enigmatiche strutture che ospita il Monte Subasio. L’Abbazia di San Benedetto al Subasio appare improvvisamente fuori dal verde fitto dopo una curva e ci si palesa di fronte in tutta la sua imponenza. La sua posizione, nascosta ma dominante la valle sottostante allo stesso tempo, ci dà subito l’idea della sua importanza strategica e del fondamentale ruolo che svolse in passato per il dominio di questi territori.

Il principio della sua storia si perde nei meandri dell’Alto medioevo, troppo confuso e poco documentato per avere delle date certe. Gli elementi a cui ci si può agganciare per dare un’età a questo complesso così antico si riferiscono ad alcune leggende raccolte da scrittori seicenteschi come il Vitale o lo Iacobilli, che fanno risalire — forse con troppo ottimismo — l’Abbazia sul Subasio ai tempi dello stesso San Benedetto. Ma visitando la Cripta “triastila” della chiesa, il cui nome deriva dalla particolare conformazione dello spazio, sorretto da tre colonne scolpite a formare una misteriosa area triangolare al centro, si capisce subito che i nostri piedi, sopra quel pavimento di piccolissimi mattoni rossi a spina, stanno percorrendo un luogo ancestrale. Le interpretazioni più recenti decretano infatti che la cripta sia risalente al VII-VIII secolo, e che l’edificio sia stato una cappella cristiana ricavata dalla trasformazione di un preesistente tempio pagano.

Vaghe notizie storiche cominciano ad apparire a partire dalla seconda metà del XI secolo, quando il complesso era dipendente dalla potente e prosperosa Abbazia di Farfa in Sabina, e fungeva da centro amministrativo dei Benedettini per i territori circostanti. Notizie certe si hanno solo con la tarda apparizione dei privilegi dei papi Eugenio III e Alessandro III nel XII secolo e poi nel secolo successivo, quando la struttura passò sotto i Monaci Cistercensi e divenne negli anni rifugio per i gruppi di banditi cacciati da Assisi nelle frequenti lotte fra le famiglie rivali. Questo costituì nel tempo un pericolo per i governanti, perché i fuoriusciti avevano modo di riorganizzare le loro vendette in pace e non troppo lontano dalla città. L’abbazia cessò così d’un tratto di essere un luogo di culto e di produzione per diventare un baluardo militare molto ambito: nel XIV secolo infatti fu prima parzialmente distrutta per ordine del Gonfaloniere di Assisi, poi conquistata dall’esercito Perugino. Del monastero rimase poco più che la chiesa. Andò perduto pure il campanile, di cui l’unica traccia che serbiamo è nell’affresco di Giotto nella Basilica Superiore, nel ciclo delle “Storie di Francesco”.

Dopo i passaggi degli eserciti la struttura fu lasciata all’incuria per più di due secoli per poi essere ripresa e ristrutturata dai diversi gruppi monastici che si susseguirono. Nel 1945 ne ripresero possesso i benedettini di S. Pietro di Assisi, che diedero inizio a un ventennio di lavori e ristrutturazioni, dando all’Abbazia l’aspetto che oggi possiamo vedere. Gli eventi sismici che hanno colpito la regione negli ultimi anni hanno compromesso la stabilità di alcune strutture, ma i monaci si sono messi di nuovo a lavoro per dare lustro e far vivere ancora questo importante pezzo del nostro patrimonio storico e culturale.

Il complesso è costituito da una serie di edifici conventuali e dalla chiesa. La chiesa, in un austero stile romanico, presenta una sola navata e il presbiterio rialzato. La copertura è crollata e la suggestione che si ha entrando al suo interno è forte. Sotto il presbiterio è posta la cripta romanica, suddivisa in cinque piccole navate delimitate da colonne con capitelli finemente scolpiti. Girovagando all’interno del presbiterio potrete trovare una lastra tombale con un’antica incisione che raffigura probabilmente l’occupante della tomba: un abate con mitra e pastorale. Inoltrandosi ancora in alcuni corridoi con volte di pietra troverete l’accesso al cuore dell’Abbazia, la Cripta triastila di cui si parlava prima, composta da un ambiente quadrato e da un’abside semicircolare. Nell’area triangolare delimitata dalle colonne prendeva probabilmente posto l’altare, o un sarcofago. L’aura di antichità e mistero vi avvolgerà e non vi lascerà finché non risalirete in superficie.

La mattina del 26 Ottobre 1786 una carrozza varcò a tutta velocità le porte di Assisi. Essa aveva un’unica meta: il cuore della città, dove sorge quella che oggi è conosciuta come la Piazza del Comune. Il convoglio disegnò una stretta curva sul selciato polveroso per poi fermarsi bruscamente. Lo stridere delle ruote si mescolava al nitrito dei cavalli e la campana della chiesa di S. Maria sopra Minerva rintoccò, come ad annunciarne l’arrivo alla piazza silenziosa. Dalla carrozza scese un uomo elegante, gli occhi rotondi sotto la fronte spaziosa e una chioma grigia raccolta in una coda che spuntava dal cappello a falda larga. Era venuto ad Assisi per ammirare una sola cosa. Ne aveva letto e aveva bramato la sua visita per anni e ora c’era finalmente davanti: il Tempio di Minerva. Una delle meraviglie dell’antichità meglio conservate mai conosciute.

Alcune voci sostenevano che il tempio di Minerva fosse stato eretto otto secoli prima della nascita di Roma dal leggendario Dardano, figura ibrida della mitologia etrusca e greca, predecessore dei fondatori della città di Troia, ma questa era un mito di fondazione trasmesso dagli abitanti della città, non una reale evidenza storica. La leggenda, sebbene si riveli spesso infondata, nasconde sempre al suo interno un alito di verità. L’elegante uomo sapeva che il tempio, con la conformazione che più o meno era arrivata intatta fino a lui, venne eretto solamente intorno al primo secolo dopo Cristo, ma sapeva anche che il motivo per cui fu scelto quello specifico posto, sfuggito alla meticolosità della storia, era altrettanto importante. Il tempio di Minerva era infatti stato eretto lì dai romani perché quello, in un passato più antico, era già considerato un luogo sacro, forse per via di alcune sorgenti termali, conformandosi via via come il fulcro della spiritualità ancestrale di cui Assisi si fa da sempre portatrice, indipendentemente dai popoli e dalle culture che l’hanno abitata.

La buona conservazione dell’edificio era dovuta anche all’uso continuativo che ne era sempre stato fatto: dopo la caduta dell’Impero, divenne proprietà dei monaci benedettini del Monte Subasio; nel Duecento passò nelle mani del Comune che lo adibì a carcere; nel Cinquecento ritornò chiesa, dedicata a S. Donato, per diventare nel secolo successivo la Chiesa di S. Maria sopra Minerva, come oggi anche noi la conosciamo.

L’uomo squadrò il tempio di Minerva alla luce del tiepido sole mattutino. I disegni che aveva studiato sui manuali del Palladio alla Biblioteca di Weimar non riproducevano affatto fedelmente la facciata e le grandezze della struttura. Sedici metri di altezza alla quale dovevano essere aggiunte le stature di tre statue, poste ai vertici del timpano, statue femminili, uguali a quella ritrovata nel Medioevo durante alcuni scavi. La dedicazione del tempio alla dea Minerva derivò proprio da quel ritrovamento, anche se, come recita una lapide votiva rinvenuta secoli dopo, il tempio era dedicato a Ercole. Il Palladio non aveva neanche riportato tutti quei buchi che costellavano l’architrave e il timpano, sopra le colonne. Che cosa erano? L’uomo ne fu sorpreso inizialmente ma subito si ravvide: erano i fori di fissaggio delle lettere in bronzo che formavano l’iscrizione dedicatoria in onore di chi aveva costruito il tempio: i due fratelli Cesio, Gneo Tirone e Tito.

Egli sarebbe rimasto in contemplazione per ore, lì davanti. Non sentiva il minimo bisogno di entrare ed esplorare l’interno perché sapeva cosa c’era ad aspettarlo: la navata di una semplice e moderna chiesa barocca, ultimata qualche anno prima, e non ne era particolarmente interessato. Ma volle fare uno sforzo e quando entrò la sua reazione fu opposta a ciò che si aspettava. Negli stucchi dorati, negli affreschi di Francesco Appiani che decoravano la volta, nell’altare lucente che riprendeva il motivo classico della facciata, l’uomo trovò uno straordinario senso di spiritualità. Una spiritualità eterna che, in questo caso – più unico che raro – non ha mai smesso di pervadere la struttura, dai tempi della sua costruzione. Forse anche da prima. In un attimo realizzò che quello in cui si trovava era forse il luogo sacro più longevo mai esistito al mondo. La potenza della sua sacralità l’aveva preservato nei millenni, proteggendolo da invasioni, guerre civili, carestie, catastrofi naturali. Il Crocifisso, gli angeli e i santi rappresentati in quello spazio gli parvero riempirsi di un significato ancora più profondo, se possibile, di quello che già portavano.

Si accorse che non aveva tolto il cappello, se ne vergognò, sebbene non ci fosse nessuno in quel momento, e rimediò frettolosamente alla disattenzione. La falda larga produsse uno spostamento d’aria e la luce all’interno della chiesa, alimentata in gran parte da un gruppo di candele lì vicino, per un attimo sussultò, come un colpo di tosse con cui ci si distoglie dall’imbarazzo.

Uscito di nuovo al sole, travolto dalla luce e dalla turbante esperienza contemplativa, si trovò di fronte quattro uomini, nel frattempo attirati dalla fiammante carrozza ferma in mezzo alla piazza.

«Dottore!» lo incalzarono «Non vuole venire a vedere la Basilica del nostro amato S. Francesco? Vedrà quanta arte c’è là dentro». L’uomo alzò appena gli occhi: «Uh? Ehm… no, grazie».

Gli uomini rimasero sorpresi, quasi increduli, e un secondo più tardi i sorrisi malandrini si erano trasformati in ghigni diffidenti. «Ma come? Neanche un’offerta volete fare al poverello? Non è buon modo di comportarsi questo».

Johann Wolfgang Goethe li squadrò meglio, estrasse frettolosamente dalla tasca una manciata di scudi d’argento, gliela porse e risalì in carrozza che ripartì veloce come era arrivata, fra lo stridere delle ruote e il nitrire dei cavalli.

[Liberamente tratto da Goethe, J., W., Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87 (1787)]

Del tempio romano oggi restano conservati il pronao in marmo e altri elementi recentemente messi in luce da gli ultimi scavi, come le mura laterali e il muro di sostegno del terrapieno. L’edificio appartiene alla tipologia del tempio prostilo corinzio in antis, cioè con pronao delimitato lateralmente dalle pareti della cella, con sei colonne scanalate poggianti su alti plinti quadrangolari, trabeazione e frontone. Giotto lo ritrasse nel primo degli affreschi del ciclo francescano della Basilica Superiore nel dipinto chiamato “S. Francesco e l’uomo semplice”. L’interno della cella è andato distrutto durante i primi lavori di rifacimento Cinquecenteschi. L’affresco sulla volta dell’unica navata rappresenta “S. Filippo Neri in Gloria” dipinto da Francesco Appiani. I dipinti che decorano gli altari laterali sono stati eseguiti nella seconda metà del Settecento e presentano la “Morte di S. Andrea di Avellino” di Anton Maria Garbi e la “Morte di S. Giuseppe” dell’austriaco Martin Knoeller. L’altare maggiore, decorato come buona parte della chiesa con raffigurazioni di angeli e putti in stucco dorato, conserva il dipinto “Dio con gli angeli del pittore e architetto assisiate Giacomo Giorgetti, che fu anche direttore degli ultimi lavori di rinnovamento dell’interno della chiesa, finiti una ventina di anni prima dell’arrivo di Goethe.

Immerso tra i terrazzamenti di ulivi appena al di sotto del centro storico, il Santuario di San Damiano è probabilmente il maggiore rappresentante tra tutti i luoghi sacri di Assisi delle virtù e dei valori che il Francescanesimo ha lasciato in eredità al mondo. A S. Damiano si concentra la spiritualità di tutta la città perché è stato, al di là delle leggende, un luogo fondamentale per la vita di entrambi i santi più famosi di Assisi. Qui Francesco, ancora giovane rampante dell’alta borghesia cittadina si ritrovò un giorno dopo aver vagato per la campagna, con le idee confuse e una strana sensazione di vuoto interiore. Era ricco, forte e lanciato nella carriera militare, ma sentiva che questo non gli bastava. Entrò nella piccola chiesetta, vuota e diroccata. L’atmosfera tiepida e raccolta gli trasmise subito un po’ di pace. Si sedette in una delle panche di fronte all’altare e in alto, in corrispondenza di quest’ultimo, c’era un crocifisso. Una tavola di legno sagomata, magistralmente dipinta, ma piatta. All’altezza della testa solo una semisfera di legno che affiorava dalla superficie dava tridimensionalità al viso di Gesù. Francesco, a testa alta, osservava quel volto che sembrava sporgersi verso di lui quando improvvisamente gli occhi sembrarono guardarlo e la bocca si aprì: “Vade Francisce, repara domum meam!”. Il crocifisso, dipinto nel XII secolo da un artista ancora sconosciuto è ancora lì, dove Francesco lo vide, anche se è una copia. L’originale venne portato via dalle Monache Clarisse quando si trasferirono dal convento di S. Damiano a quello della Basilica di S. Chiara nel 1257, dove ancora oggi è esposto.

Vai e ripara la mia casa, erano le parole che Gesù aveva rivolto a Francesco. Gli era stata assegnata un’importante missione e il suo cuore era più leggero. Egli inizialmente non ne capì la portata e, come narra la leggenda, si adoperò per riparare la chiesa di San Damiano stessa, pensando che era quella la casa a cui Cristo si riferiva. In realtà, come il giovane assisano intuirà qualche tempo dopo, la “casa” di cui si parlava era quella di tutte le anime, cioè la Chiesa come istituzione, che stava attraversando in quell’epoca un profondo periodo di crisi. Appena udito il monito, il santo corse a Foligno, vendette il suo cavallo e delle stoffe prese dalla bottega del padre portando il ricavato al cappellano di S. Damiano. Il denaro venne rifiutato ma Francesco non si dette per vinto e, deciso più che mai ad assolvere il compito assegnatogli, aspettò di non essere visto da nessuno e gettò il denaro da una finestrella. La finestra è ancora individuabile dall’interno della chiesa, sulla parete di destra, riconoscibile perché contornata da affreschi trecenteschi che ricordano il momento. A S. Damiano dimorò per 41 anni S. Chiara e vi morì. Qui, grazie ai suoi sforzi e a quelli del suo maestro Francesco, venne fondato l’ordine delle Clarisse. Dalla navata della chiesa si sale una scala e si accede al piano superiore dove è possibile visitare l’oratorio e il dormitorio nel quale la Santa esalò l’ultimo respiro.

L’esterno del santuario di San Damiano si presenta, come tutti i santuari francescani, in maniera semplice e austera. La facciata è occupata nella sua sezione inferiore da un portico composto da tre arcate a tutto sesto sorrette da piloni in mattoni e sormontato da un rosone circolare. Si intuisce fin da subito l’antichità di questa struttura appena entrati, quando ci si rende conto che la modesta navata della chiesa non occupa tutta l’ampiezza della facciata. Quest’ultima ingloba infatti altri edifici e ambienti adiacenti la chiesa, risultati dagli incessanti lavori di modifica, ristrutturazione e ammodernamento che si sono susseguiti nei secoli già a partire dal VIII-IX secolo, periodo della sua edificazione.  All’interno, la struttura della chiesetta non è molto diversa da quella che accolse le preghiere di Francesco e Chiara, in particolare l’abside, la parte più antica, con volta più bassa rispetto a quella dell’aula, occupata da un bel coro ligneo cinquecentesco. Dietro vi è una piccola finestrella sprangata. Da lì Chiara e le sue sorelle assistevano alla messa, nascoste per via della clausura al riparo dal pubblico sguardo. Lì davanti fu portata la salma di Francesco per l’estremo commiato. A metà della parete destra vi è una cappella rettangolare che ospita un pregevole crocifisso ligneo scolpito da Innocenzo da Petralia nel 1637.

Sempre al santuario di San Damiano Francesco, semicieco, compose negli ultimi anni della propria vita il Cantico delle creature, il primo componimento poetico in volgare – cioè in lingua italiana – mai conosciuto.  All’interno del santuario vi è anche un piccolo spazio espositivo che celebra questa vicenda, chiamata la Galleria del Cantico. Gran parte della collezione è costituita da una serie di incisioni originali ispirate al “Cantico” opera di un gruppo di maestri umbri, tutti discepoli di Padre Diego Donati, uno dei migliori xilografi umbri del Novecento. A Diego Donati è dedicata anche una sala del Convento di Monteripido a Perugia, dove sono esposte più di 200 opere grafiche del maestro francescano.

La Rocca Maggiore è il monumento di Assisi più visibile da qualunque distanza e punto della valle. Domina e sovrasta il colle di Assisi, circondata dalla vegetazione tutt’intorno che di notte crea una fascia scura in contrasto con le luci della città, separandola dal resto, facendola quasi fluttuare nel cielo stellato. Man mano che ci si avvicina la sua imponenza austera e severa ci ricorda che Assisi, città della pace e della spiritualità, nasconde un’anima dannata nelle pieghe della sua memoria. Il passato di Assisi è stato caratterizzato da continue guerre, sollevazioni popolari, carestie e pestilenze, e la rocca oggi ne rappresenta la testimonianza più diretta e autorevole.

Le prime notizie certe risalgono al XII secolo, quando l’Arcivescovo di Magonza utilizzò quel luogo strategicamente importante per costruire la fortezza che avrebbe ospitato Federico Barbarossa, consolidando il potere dell’imperatore a dispetto delle autonomie comunali che stavano sorgendo in quel periodo in Centro Italia. La Rocca maggiore ospitò per qualche tempo anche Federico II di Svevia, il più grande e illuminato imperatore che la stirpe germanica abbia mai avuto, sebbene ancora infante affidato dalla madre Costanza d’Altavilla alla duchessa di Urslingen, moglie del duca di Spoleto e comes di Assisi Corrado, uomo di fiducia del monarca svevo. Federico aveva solo quattro anni quando gli Assisani, incalzati da Papa Innocenzo III, insorsero e liberarono la città dal dominio “straniero”.

Per quasi un secolo il sangue e la memoria di quei burrascosi eventi rimasero incrostati sulle rovine della Rocca, semidistrutta e in disuso. Il potere amministrativo comunale si spostò infatti più sotto, negli spazi dove oggi sorge il Palazzo del Capitano del Popolo e la Torre Civica, fino a quando l’ombra di una nuova minaccia riapparve all’orizzonte. Questa volta il pericolo veniva da Est, impersonificato da Federico da Montefeltro, duca di Urbino, con i suoi alleati ghibellini tra i quali un assisano, Muzio Brancaleoni, che i suoi concittadini avrebbero ricordato come uno dei più astuti e spietati condottieri della storia della città. Muzio si inserì nell’alleanza ghibellina insieme ai Montefeltro, ai Visconti, signori di Milano, e agli Scaligeri, signori di Verona che volevano Assisi come una roccaforte da contrapporre alla guelfa e potente Perugia. Siamo nei primi decenni del Trecento, l’antica rivalità fra Assisi e Perugia raggiunge il maggior livello di violenza. Per portare avanti la sua onerosa rivalità con i perugini Muzio si macchia di reati indicibili, come vandalismi, esecuzioni e – soprattutto – la vendita del Tesoro della Basilica di S. Francesco, che gli varrà una scomunica e l’odio imperituro dei suoi concittadini.

Dopo la resa di Muzio al potere papale la Rocca e Assisi in generale si presentavano devastate. Dopo alcuni decenni di pace, giusto il tempo per ricostruire la città, le tensioni fra guelfi e ghibellini cominciarono a crescere di nuovo e il Cardinale-condottiero spagnolo Egidio Albornoz, che come un po’ tutti gli uomini di Chiesa di quel periodo si intendevano più di guerra che di pace, inserì la Rocca nella sua mastodontica opera di fortificazione dei territori papali. Accanto alle fortezze fatte costruire ex-novo, tra le quali l’imponente Rocca Albornoziana di Spoleto, ordinò tuta una serie di rinnovamenti e recuperi delle vecchie fortificazioni per la creazione di un sistema difensivo che dominasse tutta la pianura. Le mura di cinta di Assisi vennero fortificate e poco distante dalla Rocca venne eretta una seconda fortificazione, la Rocca Minore o Rocchicciola, che si dice fosse collegata alla sorella maggiore da un lungo cunicolo all’interno delle mura.

Grazie ai lavori di fortificazione Assisi diventò ancor più una meta strategica e ambita dai mercenari e i condottieri del momento che combattevano per questa o quella fazione. Il sistema di difesa Albornoziano cedette infatti un secolo più tardi sotto i colpi di Niccolò Piccinino, il macellaio perugino che diventò uno dei più grandi uomini di ventura del suo tempo, le cui gesta saranno lodate anche da Leonardo da Vinci. Grazie anche all’aiuto di un frate traditore, che gli indicò un passaggio segreto per oltrepassare le mura all’interno dell’antico acquedotto romano, nel 1442 Piccinino assediò e mise a ferro e fuoco Assisi, nel frattempo ritornata ghibellina sotto la protezione del signore di Pesaro Alessandro Sforza. Le cronache del tempo raccontano che Niccolò, tra le cui qualità non spiccavano di certo la clemenza e la misericordia, fu colpito dalla bellezza della città a tal punto che rifiutò una ricca offerta (15 mila fiorini!) da parte del Comune di Perugia per raderla al suolo e mettere fine alle ostilità una volta per tutte. Le lotte e gli assedi continuarono più o meno regolarmente per tutto il secolo successivo, per poi perdere gradualmente di intensità man mano che il potere papale si consolidava come uno degli stati più potenti della penisola e che Assisi perdeva la sua posizione strategica nel territorio. L’ultimo restyling della Rocca fu apportato da Papa Paolo III Farnese nel 1535, anch’egli prelato col debole per la conquista. Non fidandosi dei riottosi cittadini umbri, Paolo III fece rinforzare le torri difensive e fece erigere il torrione circolare che ci appare imponente appena imbocchiamo la ripida salita che si snoda da Porta Perlici: solo un preludio della sua più grandiosa opera difensiva in Umbria: la Rocca Paolina.

Nei tempi successivi la rocca perse a poco a poco la sua funzione difensiva. Divenne prima residenza dei castellani deputati al controllo del territorio; in seguito fu adibita a carcere e poi a magazzino.

La rocca maggiore è visitabile al suo interno. Sebbene ora sia spoglia e ci siano pochissimi oggetti al suo interno, è possibile percepire attraverso le feritoie, i muri brulli e gli stretti corridoi, tutto il travaglio e il dolore che gli uomini hanno sperimentato in questo luogo di guerra. L’ingresso si apre nei pressi del bastione cinquecentesco, all’interno si trova un cortile pavimentato con mattoni trecenteschi; adiacente è il cassero, dove erano disposti gli ambienti di servizio. All’interno del maschio, che fungeva da abitazione del castellano, si sovrappongono cinque ambienti uniti da una scala a chiocciola.

La Piazza del Comune di Assisi è una delle piazze più belle e ricche di storia dell’Umbria per un motivo ben preciso: tutto il patrimonio storico, artistico e culturale che è presente in superficie è replicato nella stessa misura, forse maggiore, nel sottosuolo. Il pavimento mattonato della piazza poggia su livelli sovrapposti di roccia e costruzioni stratificate nei secoli, a partire da quando la prima civiltà, quella degli Umbri, ha colonizzato per la prima volta queste verdi colline nel VI-VII secolo a. C. Nei secoli a cavallo dell’Anno Zero, per volere di alcuni facoltosi committenti, ad Assisi fu costruito il Foro, centro nevralgico della vita cittadina. Oggi, dopo quasi ventun secoli, possiamo ancora ripercorrere, almeno in parte, il foro romano di Assisi.

L’ingresso per il regno ipogeo della città serafica è in Via Portica, scendendo per qualche decina di metri lungo la discesa, e la porta di accesso non poteva che essere una cripta di una chiesa, emblema della fusione dell’antico e del sotterraneo, quella della Chiesa di S. Nicolò. Questo luogo non è solo un luogo di accesso ma un vero e proprio museo perché ospita dal 1934 la collezione archeologica municipale di Assisi. Si trovano splendidi e ben conservati sarcofagi, urnette cinerarie e alcune steli, i documenti storici più importanti e ricchi di informazioni che possiamo trovare riguardo il periodo antico della città.

Da una piccola apertura nella parete della cripta si accede al Foro romano di Assisi. La parte espositiva è stata completamente rinnovata nel 2008. Si sono rivisti gli allestimenti, l’illuminotecnica ed è stata costruita una lunga passerella di vetro sospesa che attraversa tutto l’ambiente, lungo più di cento metri. Un accorgimento conservativo necessario, ma che ci toglie il privilegio avuto da chi, fino a qualche anno fa, poteva posare i piedi sulle stesse pietre calpestate dai nostri avi. Camminiamo sottoterra, ma dobbiamo immaginarci un grande spazio aperto, illuminato dal travertino bianco intonacato e protetto dal monumentale Tempio di Minerva, molto più alto di come lo vediamo oggi, visto che il piano di calpestio era almeno cinque metri più basso di quello odierno.  Camminando lungo la passerella, alla nostra destra e alla nostra sinistra troviamo steli ed epigrafi, memorie funerarie recuperate dalle necropoli del circondario che non avremmo di certo trovato qui duemila anni fa, ma che stanno a simbolizzare una presenza. La presenza, di chi in quei tempi popolava il foro: chi veniva per commerciare e vendere i prodotti della propria campagna, chi per assistere o partecipare alle pubbliche assemblee, chi a rendere grazie agli dei. Davanti a noi i resti del tribunal, struttura in pietra composta da sedute dove i magistrati della città prendevano le decisioni più importanti. Dietro al tribunal un muro, che dobbiamo vedere, sempre con un briciolo di immaginazione, ricoperto da intonaco bianco e costellato di decorazioni floreali e ghirlande in bronzo. Questo era il muro oltre il quale, grazie a due aperture, si accedeva alla scalinata del Tempio, che rimaneva nascosta. Con un briciolo in più di immaginazione potremmo figurarci lì in piedi nel I secolo, ad ammirare il Tempio, che vedremmo sbucare dal muro senza capire cosa c’è sotto, facendolo sembrare quasi sospeso in aria.

Girandoci, spalle al tempio, avremmo visto un altro monumento molto importante della vita religiosa cittadina: il Tempio dei Dioscuri Castore e Polluce, semidei figli di Giove, di cui oggi rimane solo il basamento e una grande iscrizione, conservata perfettamente, che indica i nomi dei committenti dell’opera, ben esposti alla vista dei passanti.

Continuando il percorso si incontra una delle molte cisterne che dovevano essere sparse per la città antica. Nonostante Assisi fosse famosa in antichità per le sue numerose fonti e per le sue acque salutari, l’acqua piovana rimaneva un apporto fondamentale all’approvvigionamento idrico. Si potevano contare quattro cisterne di raccolta solamente nella piazza del foro, delle quali oggi ne rimangono due. Possiamo vedere nitidamente ancora il sistema di canaline di scolo che serviva per portare l’acqua alle cisterne.

L’esplorazione continua e il percorso espositivo ci conduce di fronte a due spazi che dovevano fungere come tabernae, cioè botteghe di carattere commerciale dove venivano venduti beni di prima necessità e dove gli abitanti si fermavano per mangiare durante il giorno. In battuta finale l’esposizione di alcune statue di marmo, fra i quali uno dei probabili Dioscuri che erano ospitati nel Tempio di Castore e Polluce.

La visita al Foro romano e alla Collezione archeologica è una tappa inevitabile per chi visita Assisi, e ci conferma ancora una volta che questa città è una miniera infinita di storia e cultura. E, come in ogni miniera che si rispetti, più si va a fondo, più sorprese emergono.

Una delle più belle esperienze da vivere quando si viene ad Assisi è sicuramente esplorare quella parte di città antica, nascosta, misteriosa e poco nota alla maggior parte dei turisti. Senza nulla togliere alle splendide chiese e agli edifici in superficie, la città nasconde un mondo sotterraneo affascinante e straordinario, che sembra spingere sempre di più per affiorare dal buio e prendersi il suo meritato riconoscimento. Ogni giorno un piccolo pezzettino della vita romana e preromana di Assisi viene scoperto e la Domus del Lararium è proprio uno dei più recenti ritrovamenti, tanto che gli scavi e gli studi su questo splendido sito non sono ancora terminati.

È infatti nel 2001 che, durante dei lavori effettuati sotto Palazzo Giampè per installare un ascensore, dei resti di antichi stucchi provenienti da capitelli romani attirarono l’attenzione degli operai. Le indagini andarono a fondo e ciò che riemerse dai sotterranei del palazzo — dove oggi risiede il tribunale — non tradì le aspettative. I capitelli facevano parte di tre colonne alte quattro metri risalenti al I secolo, quando i territori romani erano sotto il dominio di Nerone. Erano le colonne del cortile interno, detto anche peristilio, di una tipica domus romana. Data la forma e la grandezza del peristilio si ipotizzò che intorno a questo dovessero girare almeno altri tredici ambienti, un tesoro che non poteva rimanere nascosto. Venne scoperto prima un soggiorno e subito dopo il triclinio, immancabile arredamento della casa romana, dove si svolgeva gran parte della vita sociale, mangiando e conversando piacevolmente sdraiati. Tanti furono gli ostacoli che gli studiosi trovarono lungo il cammino per portare avanti lo scavo, sia di tipo economico che strutturale. I palazzi seicenteschi che si trovano sopra la domus infatti non furono costruiti poggiando i basamenti sui muri e sulle colonne romane, come spesso accade, bensì sulla semplice terra. I progettisti probabilmente non si accorsero neanche di cosa avevano sotto i piedi quando gettarono le prime pietre. Questo fa sì che la domus si sia mantenuta perfettamente nei secoli, ma obbligò gli studiosi a non poterla riportare alla luce nella sua interezza, pena il crollo delle strutture soprastanti.

Così i lavori continuarono tra mille difficoltà e lungaggini, ma dopo quasi dieci anni dal primo ritrovamento tutti gli sforzi furono ripagati. A riaffiorare dalle viscere della terra fu questa volta Il cubiculum, la stanza da letto, mostrandosi in tutto il suo splendore. Una camera probabilmente appartenuta alla padrona di casa, dati l’arredamento e gli oggetti ritrovati. Il rosso vivo e acceso delle pareti si mostrò ben conservato, interrotto solamente da raffinati cicli di pitture murali che rappresentano un quadro nuziale con un uomo e una donna in amore e quattro eleganti dame che ne osservano una quinta, intenta alla toletta con l’assistenza di un’ancella. A terra gli archeologi trovarono molti ferma capelli e un oscillum, un grande talismano in marmo a forma di mezza luna, che veniva appeso al soffitto e oscillava al passaggio del vento, con il compito di proteggere la casa e di portare il buon augurio. La piccola scultura era sul pavimento di prezioso mosaico in tasselli bianchi e neri, spaccata in due. Il profilo dei due volti scolpiti, uno di fronte l’altro, che decorano la mezza luna, non si guardavano più. Il talismano era probabilmente rotto in antico, caduto a terra durante un evento improvviso, rovinoso, che portò la domus a essere evacuata d’urgenza dai suoi abitanti. Forse una perdita d’acqua dal vicino vano cisterna, forse qualcos’altro, sta di fatto che gli abitanti dovettero lasciare in fretta e furia la loro dimora senza la possibilità di portar via i propri averi.

La teoria della fuga improvvisa fu inoltre confermata da un altro elemento, tanto caratterizzante e strano per un sito del genere da qualificarne il nome stesso. Sulla soglia del cubiculum, sopra un piccolo altare in terracotta, si ergeva una piccola statua, rimasta lì in piedi per secoli. L’altare era un lararium, da cui appunto prende il nome la domus, e la statua raffigurava un lare, divinità romana che aveva il compito di proteggere la casa, la famiglia e le sue attività. Nulla di più importante poteva esservi all’interno di una domus, perciò la causa che aveva portato i residenti a scappare senza prima mettere al sicuro la preziosa statua doveva essere stata altrettanto importante.

Gli archeologi che rientrarono per la prima volta dopo duemila anni nella domus del lararium poterono rivivere quell’esatto momento, come se anche questo fosse rimasto bloccato, insieme a tutto il resto, nella terra e nel tempo.

Nonostante sia stata per secoli unicamente meta di pellegrinaggio e di viaggi spirituali, Assisi offre una grande varietà di attività alternative da fare, sia all’interno che all’esterno delle sue mura. Un elemento che molti visitatori tendono a dimenticare è che il territorio del comune di Assisi è inserito all’interno del Parco Nazionale del Monte Subasio, un parco molto curato e attrezzato, dove la natura esplode rigogliosa.

Se siete amanti del trekking o dell’escursionismo non avete che l’imbarazzo della scelta. Sull’intera superficie del Subasio si snodano una miriade di sentieri. Sono ben segnalati e facilmente percorribili, e vi porteranno a scoprire delle vere e proprie chicche nascoste all’interno del parco. Dal versante meridionale della montagna spuntano i numerosi “sassi” o “scogli”. Si tratta di conformazioni rocciose che affiorano dalla macchia boscosa e offrono uno spettacolare panorama a picco sulla valle. Ad esempio Sasso Piano, sulla cima, o Sasso Rosso, che guarda la valle spoletina.

Arrivando sulla cima del monte (1290 m s.l.m.) godrete di una spettacolare vista a 360 gradi che incornicia tutta la dorsale dell’Appennino Umbro-Marchigiano e che si spinge a sud, nelle giornate particolarmente nitide, fino al maestoso Gran Sasso. Da lì, camminando per qualche minuto arriverete a una delle attrazioni naturali più stupefacenti del posto, i Mortari. Vere e proprie voragini giganti di origine carsica dislocate su tutta la cima che sprofondano nel cuore della montagna fino a 60 m. Nel linguaggio tecnico si chiamano doline e un tempo si credeva che fossero le bocche sopite di un vulcano primordiale. Il Mortaro Grande arriva a un diametro di 260 m. Con un po’ di voglia e buone gambe si può scendere fino in fondo e gustarsi la sensazione unica, ma attenzione alle vertigini!

Seguendo quegli stessi sentieri potrete scovare i resti di antiche abbazie o chiese, che un tempo accoglievano congregazioni di monaci o eremiti solitari. L’Abbazia di S. Benedetto al Subasio e l’Eremo delle carceri sono solo i più famosi. Se siete stanchi potete fare una sosta e rifocillarvi in uno dei minuscoli borghi nascosti all’interno dei boschi della montagna. Collepino, Armenzano o Costa di Trex. Scendendo un po’ più a valle il fiume Tescio vi darà la possibilità di rinfrescarvi, fare un piccolo bagno o, per i più dinamici, avventurarsi in una emozionante sessione di canyoning con una guida specializzata alla Forra del Ponte Marchetto.

Se avete tempo e voglia, da Assisi potrete seguire le orme di S. Francesco lungo la Via di Francesco, un intenso e appassionante percorso che conduce a nord verso il mistico santuario di La Verna, in Toscana, e a sud verso Roma. Potete farlo a piedi o in bici, dovete solo ricordarvi di lasciare a casa la fretta.

Se camminare non fa proprio per voi potete comunque esplorare il parco in sella a un cavallo e se le emozioni non sono abbastanza, perché non vederlo dall’alto, insieme ad Assisi e a tutta la sua valle, imbragato a un parapendio?

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LA STORIA DI ASSISI DALLE ORIGINI ALL’EPOCA ETRUSCO-UMBRA

La leggenda lega le origini di Assisi a Dardano, figura mitologica la cui stirpe fu fondatrice della città di Troia. Egli avrebbe edificato la città otto secoli prima di Roma e, per rendere grazie ad Atena, dea della guerra e della sapienza, innalzò un tempio in suo nome. Lo stesso tempio che sorge ancora oggi nella piazza principale e, nonostante ospiti la chiesa di S. Maria sopra Minerva, è il simbolo più importante del periodo classico di tutta la città.

Gli Asisinates furono probabilmente i primi discendenti diretti degli Assisani moderni. Essi sono ricordati nell’ambito delle popolazioni che facevano parte del popolo degli Umbri da Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia, scritta nella metà del primo secolo d.C. Lo storico e scrittore romano dichiara infatti che gli Umbri furono uno dei più antichi popoli d’Italia. Assisi fu dunque umbra, in continuo contatto e conflitto con la Perugia etrusca fino al III secolo a.C., quando passarono entrambe sotto il dominio di Roma. L’influenza della Res Publica romana fece cessare per qualche tempo le ostilità fra la due città confinanti e quasi gemelle per conformazione, ma gli scontri fra Perugia e Assisi non cesseranno mai veramente e caratterizzeranno tutta la storia di questo territorio. I romani, con la saggezza che li contraddistingueva, non instaurarono un dominio diretto ma lasciarono i Marones, magistrati indigeni umbri, amministrare la città per conto loro. Assisi infatti fu città foederata fino ai primi anni del primo secolo a. C.

Seguire le tracce della Assisi pre-romana può essere un’avventura complicata quanto emozionante. I resti delle civiltà umbra ed etrusca, dopo più di due millenni, si sono fatti sempre più rari, ma una pista da seguire c’è e comincia dalla collezione archeologica ospitata nel Foro romano, nelle viscere della piazza principale, dove sono esposti, tra le altre cose, delle epigrafi del periodo, e nel Museo diocesano della Cattedrale di S. Rufino, dove potrete scovare delle bellissime sculture architettoniche chiamate antefisse, ancora murate nelle fondamenta della canonica.

EPOCA ROMANA

Presto nell’Assisi romana si diffuse il cristianesimo e anche i suoi primi martiri, come Rufino. Rufino fu il primo vescovo della città e giunse a predicare il Vangelo nel III secolo da una regione della Turchia, naturalmente osteggiato dall’autorità. Dopo averlo scoperto il proconsole Aspasio lo condannò a pesanti torture per poi gettarlo nel fiume Chiascio con una macina di pietra appesa al collo, nei pressi della località di Costano. Oggi S. Rufino è il patrono di Assisi e la sua cattedrale, che ne ospita la tomba è una delle più belle e antiche della città.

Durante la prima età imperiale Assisi doveva essere già rinomata per la sua aria benefica, legata alla sacralità e alla salubrità del luogo. In città infatti si instaurano i grandi gruppi gentilizi della capitale, che però vivevano stabilmente a Roma, facendo costruire qui case per il controllo delle proprietà, creando un vero e proprio luogo di “villeggiatura”. Un fenomeno particolare di quel periodo infatti fu l’ascesa in città dei liberti, cioè coloro che amministravano i beni in città per conto dei padroni. Un esempio è il caso di Publio Decimio Eros Merula che fu chirurgo, oculista e benefattore della città. Egli fece delle donazioni per lastricare strade e per la costruzione di statue per il tempio di Ercole, come recita un’epigrafe ancora presente nella collezione archeologica del Foro Romano.

Rispetto a quelle che l’hanno preceduta, la civiltà romana ha lasciato profondissime tracce ad Assisi. Nei sotterranei della piazza principale d’Assisi, Piazza del Comune, il Foro Romano è visitabile e in ottime condizioni. Questo non doveva essere il centro dell’insediamento, che invece si sviluppava più a monte, piuttosto un santuario legato al culto delle acque che sgorgavano con probabilità da una fonte direttamente dentro il tempio. Risalendo dalla piazza potrete trovare infatti altri resti di architettura romana, come il muro perimetrale di una cisterna, resti di un acquedotto, un teatro ‒ oggi di proprietà privata ‒ e un anfiteatro. Trovare l’anfiteatro esplorando la città a piedi vi risulterà complicato. Se osservate la disposizione degli edifici nella zona di Piazza Matteotti su una mappa riconoscerete subito la localizzazione del sito: le case sorgono oggi sulle fondamenta dell’anfiteatro e sono disposte nella tipica pianta ellittica di architettura romana.

Ma il più illustre protagonista culturale dell’epoca romana è senza dubbio Properzio, uno dei più importanti poeti della classicità. Nato con molta probabilità nella campagna assisana, in località Collemancio, le sue Elegie diverranno, specialmente durante il periodo neoclassico, un esempio lirico studiato e ripreso da autori come Ariosto, Tasso e Goethe. Se volete scoprire qualcosa in più non potete non visitare la Domus Sesto Properzio, posta sotto la cripta della chiesa di S. Maria Maggiore. Lì potrete ammirare degli splendidi e antichissimi affreschi e delle iscrizioni che hanno condotto gli studiosi ad attribuire quegli ambienti alla casa abitata dal poeta nella sua giovinezza, prima di trasferirsi a Roma.

MEDIOEVO

Dopo la caduta dell’Impero, la confusione e il mistero che caratterizza l’Alto Medioevo cala inevitabilmente anche su Assisi. Nel quinto, sesto e settimo secolo le tracce del passaggio delle popolazioni germaniche, a causa di un uso della scrittura limitato e delle tecniche di costruzione poco durevoli, si fanno sempre più deboli.

Sappiamo però che con la fine del dominio romano, che convenzionalmente si pone nel 476 d.C., ad Assisi comincia un periodo turbolento e oscuro che, seppur con alcune pause, logorerà la città fino agli albori dell’Unità d’Italia. Gli assedi e le conquiste si alternano senza sosta fin dal principio nella iniziale disputa fra popoli germanici e bizantini. Presidio gotico di Teodorico, poi passata sotto l’influenza del generale bizantino Belisario, nel 545 Assisi è invasa dagli Ostrogoti di Totila, per poi tornare nel 552 ai Bizantini con Narsete. Alla fine del VI secolo si instaura un periodo di relativa tregua portata dai Longobardi con Alboino e dalla annessione della città al Ducato di Spoleto. Il Regno longobardo cadrà ancora sotto i colpi dell’imponente esercito di Carlo Magno due secoli dopo. Il passaggio dei Franchi e del nuovo Impero Carolingio, che sembra non aver lasciato traccia nella città, è piuttosto evidente nei territori periferici, dove il periodo di continue guerre costrinse i governanti a organizzare la difesa della città con sistemi di incastellamento. Molti dei castelli che sorgono a valle, con gli incantevoli paesini che gli si sono sviluppati intorno, risalgono infatti a questo periodo. I castelli di Torchiagina, Tordandrea, Castelnuovo, Sterpeto e Petrignano sono alcuni degli insediamenti che cominciano a svilupparsi in questo periodo e che si trovavano in prima linea nella difesa della città.

Il sistema di castelli resse fino al 1174, quando le truppe dell’imperatore germanico Federico Barbarossa, dopo aver conquistato gran parte dell’Italia settentrionale, entrarono ad Assisi. Lui, che veniva da una famiglia che di tecniche di costruzione di castelli se ne intendeva (il nipote, Federico II, fece costruire Castel del Monte) ordinò di innalzare sui ruderi romani la Rocca Maggiore per il suo veloce soggiorno.

IL COMUNE

Ma la resistenza della Rocca nulla poté contro i poteri che stavano sorgendo in Italia in quel momento. Da una parte Papa Innocenzo III e la sua campagna espansionistica sull’Italia centrale, dall’altra il fermento delle istituzioni comunali che si stavano diffondendo in tutto il territorio. Nel 1198 una rivolta popolare destituì il potere imperiale instaurando il governo comunale ad Assisi, con i suoi consoli e con il Capitano del Popolo, non senza lo zampino delle istituzioni ecclesiastiche. Possiamo far cominciare qui la lunghissima lotta che in città vedrà contrapposte le fazioni cittadine dei Guelfi, appoggiati dal pontefice, e dei Ghibellini, sostenitori del potere imperiale. Con la stessa dinamica delle fazioni si vedevano spesso contrapposte le due città, in eterna frizione, di Perugia e Assisi: a volte l’una guelfa e l’altra ghibellina, a volte il contrario.

Intanto, tra il 1181 e il 1182, nasceva in una piccola casa del centro, corrispondente al punto dove oggi sorge la Chiesa Nuova, Giovanni di Pietro di Bernardone, l’uomo più importante di Assisi e uno degli uomini più famosi del mondo occidentale. Se non vi suona molto familiare è per via del suo nome, diverso da quello con cui fu conosciuto negli anni seguenti: Francesco. Francesco d’Assisi.

Sarebbe impossibile in questo contesto raccontare la vita e le gesta dell’uomo che rivoluzionò e, probabilmente, salvò da una crisi interminabile la Chiesa cattolica attraverso la riscoperta di valori quali la pace, la povertà e la fratellanza. Non c’è modo migliore di conoscere la storia di Francesco che conoscere la sua città. Per ogni chiesa che visiterete, per ogni strada che percorrerete, per ogni opera che ammirerete scoprirete una piccola parte in più del racconto di questo straordinario personaggio. Nelle leggende e nelle gesta che si tramandano nella sua agiografia scoprirete la santità e l’importanza dei valori di cui si fece portatore, negli eventi e nelle testimonianze storiche troverete la bellezza e la semplicità delle vicende di un uomo comune, come tutti noi.

Dopo la sua morte, nel 1226, e con la sua canonizzazione, avvenuta due anni dopo, la Città Serafica vive il periodo di maggior splendore artistico e culturale di tutta la sua storia. D’un colpo le strade cominciano a popolarsi di pellegrini di tutti i tipi ed estrazioni sociali, dal povero al lebbroso, al principe, al cardinale. Pittori, scultori, costruttori e artisti di ogni sorta vengono da tutto il mondo costituendo una fucina di culture e stili artistici diversi. I luoghi che oggi ammiriamo a bocca aperta non sarebbero stati così meravigliosi se un uomo, poco dopo la morte di Francesco, non si fosse battuto per costruirli con tale magnificenza. Frate Elia, generale dell’ordine monastico francescano fondato dal Santo, si batté a lungo per costruire le due Chiese dedicate a Francesco, la Basilica Inferiore e la Basilica Superiore degne della sua santità. I dettami di umiltà, povertà e frugalità predicati da Francesco e seguiti dal suo ordine accesero un lungo dibattito su come dovessero essere edificati gli istituiti eretti in suo nome. Se non fosse stato per Elia a quest’ora, al posto delle Basiliche di S. Francesco, della Basilica di S. Chiara, della Basilica di S. Maria degli Angeli e di tante altri splendidi e maestosi monumenti francescani, avremmo avuto dei piccoli e anonimi edifici, senza nessun tipo di decorazione e con nessun oggetto prezioso al suo interno, come la Regola stabiliva. Le cose, purtroppo o per fortuna, sono andate in un altro modo. Potreste divertirvi, camminando per la città, a immaginarla secondo gli ordini di Francesco e, magari, chiedervi se la storia, della città, di Italia, della Chiesa intera, avrebbe avuto lo stesso corso.

Solo la vicenda di Francesco riuscì a restituire alla città alcuni decenni di pace e serenità. Ma ben presto le ostilità, i rancori e le violenze fra le fazioni cittadine ripresero a pieno ritmo, in un’escalation difficile da immaginare. Nel 1319, a causa delle scorribande dei Ghibellini di Muzio Brancaleoni, la città venne addirittura scomunicata, da Papa Giovanni XXII in persona, privando per più di trent’anni i suoi cittadini dei sacramenti e della sepoltura religiosa. Più tardi la città tornò sotto l’egida pontificia grazie al Cardinale Albornoz, che per evitare nuovi tumulti da parte degli eretici rivoltosi rinforzò le mura e le fortificazioni della città, aggiungendo a poca distanza dalla Rocca Maggiore la Rocca Minore, collegandole con un lungo corridoio.

Sul finire del ‘300 le lotte intestine si inaspriscono di nuovo: le ostilità fra le due fazioni, i Guelfi capeggiati dalla famiglia Nepis e i Ghibellini guidati da Guglielmo di Carlo (nipote di Muzio Brancaleoni), arrivano a un punto da spaccare letteralmente la città in due: la Parte di Sopra, che comprende i rioni di Porta Perlici, S. Chiara e S. Maria Maggiore; la Parte di Sotto, che ingloba S. Francesco, S. Giacomo e S. Pietro. La separazione è talmente marcata che la città rimarrà divisa così per sempre e ancora oggi, una volta all’anno, è possibile rivivere le emozioni di quei giorni grazie al Calendimaggio, senza per giunta nessun rischio di morire o di essere scomunicato!

RINASCIMENTO

Neanche l’età fiorente del Rinascimento, periodo portatore di cultura e bellezza in tutta Italia, placa le sorti della travagliata città umbra. Per tutto il ‘400 Assisi è dilaniata dalle scorribande di ribelli condottieri Perugini che si impossessano della città a più riprese, scacciati ciclicamente da alleati dello Stato pontificio come gli Sforza e i Montefeltro. Nel 1398 Braccio Fortebraccio da Montone invase la città con l’intento poi di rientrare a Perugia, da cui era stato esiliato qualche tempo prima. Nel 1442 Niccolò Piccinino, con l’aiuto di un frate traditore, riuscì a superare le mura cittadine e devastò tutto ciò che trovò sulla sua strada. La leggenda vuole che, abbagliato dalla bellezza della città, rifiutò 15 mila fiorini offertigli dal comune di Perugia per raderla al suolo definitivamente.

Assisi era in ginocchio, distrutta e desolata. Sul finire del secolo riprendono gli scontri tra le fazioni cittadine in concomitanza con le lotte intestine fra le famiglie perugine. La Parte di Sopra, guelfa, che appoggiava la famiglia Baglioni e la Parte di Sotto, ghibellina, a sostegno della famiglia degli Oddi. E ancora all’inizio del nuovo secolo la città dovrà sopportare gli scempi e le distruzioni del Valentino, Cesare Borgia, che, con il pretesto di riportare la città sotto il controllo del Papa, saccheggia senza scrupolo e ritegno ogni chiesa che trova sulla sua strada.

Per avere un’idea della situazione in cui versò la città in questo secolo basti pensare che oltre alla storica epidemia del 1348, tra il 1416 e il 1529 sono documentate ben ventisei pestilenze, in media una ogni quattro anni, durante le quali i cittadini erano costretti ad abbandonare la città, cercando di tirare avanti tra i rischi e gli stenti di contadi e zone montuose, o rimanere in città, andando incontro a morte certa. Dalla prima metà del Cinquecento Assisi entra stabilmente a far parte dei territori dello Stato Pontificio e comincia una nuova era pacifica ma, paradossalmente, ancora più povera di quella precedente.

L’ETÀ MODERNA

Il periodo di relativa stabilità e pace della città francescana durerà per quasi due secoli, fino a quando una nuova minaccia si affacciò in Italia: Napoleone Bonaparte. Tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘800 Assisi fu occupata dalle truppe francesi che fecero incetta di tutti i tesori delle chiese cittadine e di molte opere d’arte. Le cronache raccontano che solo dalla sacrestia della Basilica di S. Francesco vennero trafugati più di cinque quintali d’argenti lavorati. Nei primi anni del ‘800 la città era poverissima, priva di qualsiasi attività commerciale o industriale e spopolata. La maggior parte degli abitanti si era trasferita nel contado per tirare avanti con l’unica economia disponibile, che era quella agricola. Come se non bastasse, nel 1832 un violentissimo terremoto rase al suolo la città, danneggiando fortemente i suoi monumenti, si salvò solo la Basilica di S. Francesco. La cupola della Basilica di S. Maria degli Angeli crollò rovinosamente ma per miracolo la Porziuncola, luogo preziosissimo della storia francescana, rimase illesa. Ciò che riaccese la fiamma della vitalità culturale ed economica e risollevò nuovamente dal baratro le sorti della città fu ancora una volta un evento sacro legato al culto francescano: il rinvenimento dei corpi di Francesco e Chiara. Nel 1818, per ordine di Papa Pio VII venne riesumato, dopo cinquantadue notti di duro lavoro, il corpo di Francesco sotto l’altare della Basilica Inferiore. L’evento fece il giro del mondo e attirò milioni di pellegrini, fedeli e semplici curiosi di vedere le spoglie mortali del santo, che vennero poste in una cripta nei sotterranei della Basilica stessa. Qualche anno più tardi fu la volta della sua discepola S. Chiara, protetta di Francesco e fondatrice dell’ordine francescano femminile della Clarisse. Nel 1850 le sue spoglie vennero riesumate dalla Basilica di S. Chiara e sottoposte alla stessa sorte di quelle del suo maestro spirituale.

IL NOVECENTO

La fama e il lustro e l’economia della città raggiunsero il loro apice durante il fascismo, grazie al lavoro dell’illuminato podestà Arnaldo Fortini. Le celebrazioni del VII centenario della morte di Francesco (1926-27) e la proclamazione del Santo Patrono d’Italia nel 1939 da parte di Pio XII ebbero risonanza di livello mondiale. Assisi si accingeva a ottenere uno splendore che non avrebbe più perso.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Assisi fu occupata dall’esercito tedesco. Durante la Resistenza i bombardamenti sembravano inevitabili e i monumenti della città sarebbe stata la fine. Ma la sua bellezza e la sua spiritualità, combinate all’opera diplomatica certosina di alcuni vescovi e la lungimiranza dei due comandanti, quello tedesco occupante e quello alleato in arrivo, portarono a dichiarare Assisi come “Città Ospedaliera”, non utilizzabile come deposito di armi e munizioni e non bombardabile. Durante l’occupazione tedesca la città è letteralmente invasa dai profughi, tra i quali oltre 300 ebrei. Alcuni frati e parroci coordinati dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini trasformarono Assisi in uno dei centri principali della resistenza civile italiana all’Olocausto. Travestiti da frati e suore, nascosti nei sotterranei e nelle cantine, mimetizzati tra gli sfollati, provvisti di documenti falsi, gli ebrei rifugiati ad Assisi furono protetti da una vasta rete di solidarietà che si estendeva anche ad altre zone dell’Umbria e aveva contatti, anche attraverso il ciclista Gino Bartali, con i gruppi di resistenza Liguri e Toscani.

Il secolo si chiuse con un’immagine che fece il giro del mondo. Era il 26 settembre 1997, poco dopo le 11 una fortissima scossa di terremoto colpisce Assisi e i territori vicini. La volta della Basilica Superiore di S. Francesco, che aveva resistito ai colpi inferti dai terremoti per otto secoli, crolla rovinosamente uccidendo quattro persone. Una tragedia immane per l’uomo, un altro dei ciclici periodi neri della piccola città arrampicata sulla cima del suo colle da millenni, da cui ha sempre saputo risollevarsi e sempre si risolleverà.

Lungo le stradine acciottolate di Assisi, tra i locali per il ristoro e i negozi di souvenir, è facilissimo incappare in studi di artista o botteghe di artigianato che producono oggetti di pregevole fattura. Queste non sono solo attività commerciali, ma pratiche che si trasmettono da generazioni e, in alcuni casi, esempi tipici della cultura e della tradizione locale. Segnaliamo le attività di lavorazione di ferro e rame, con cui vengono eseguiti prodotti di oggettistica e splendide armi medievali; le attività di lavorazione del legno, in particolare del legno d’ulivo, che viene coltivato da tempi antichissimi e cresce rigoglioso in queste zone, con il quale vengono prodotti dei raffinati oggetti e riproduzioni di arte sacra. Uno dei più famosi oggetti di Assisi è il Tau, che viene prodotto come ciondolo da appendere al collo per essere portato sempre con sé. È un segno che ricorda vagamente la lettera “T” ed era il modo in cui in antichità veniva rappresentata l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico ‒ Tau ‒ appunto. La sua simbologia è legata alle radici della cristianità, viene menzionato nell’antico testamento e faceva parte del codice con cui i primi cristiani in epoca romana comunicavano e rappresentavano la loro fede all’interno delle catacombe. Il Tau fu molto caro a S. Francesco, sia per la sua antica simbologia, sia perché la sua forma ricorda quella della Croce, altro simbolo molto importante nella religione cristiana. Egli infatti si firmava con questo simbolo in molte delle lettere che inviava ai suoi frati o ad altri devoti.

Se vi piace l’artigianato tessile, vi informiamo che Assisi è la terra natia di un punto di ricamo unico, abbinato al punto croce e al punto scritto, chiamato – neanche a dirlo ‒ punto Assisi o punto Francescano. All’interno del centro storico troverete numerosi laboratori che eseguono manufatti con questa tecnica, anche su commissione, estremamente riconoscibile perché una delle poche ad utilizzare un decoro al “negativo”. Le figure, che riprendono molto stili decorativi e architettonici romanici e gotici, sono ricamate delineando i contorni. La tecnica, anche questa antichissima, era utilizzata fin dal 1500 dalle monache che vivevano nei numerosi conventi e monasteri della città. Con l’arrivo della modernità questa tradizione ha rischiato di scomparire. Dobbiamo parte del merito del suo recupero a una nobile donna locale, Elisabetta Locatelli Pucci, che nel 1903 fece sorgere in città un laboratorio speciale di ricamo che inserì nella cooperativa delle Industrie Femminili Italiane, prestigiosa realtà imprenditoriale nazionale di inizio secolo. Il punto Assisi e la sua antica tradizione erano salvi. Da quel momento sorsero molte scuole nel territorio e la tradizione diventò anche un’importante risorsa economica.

Nel XVI secolo, in una relazione per il papa stilata da un funzionario pontificio in visita, si poteva leggere che nonostante Assisi fosse da secoli dilaniata da guerre e carestie «si potria sopra tutte le città dell’Umbria chiamarsi felice, poiché di grano, vino et olio et altre cose necessarie al vitto abbonda sopra ogn’altra et di bonissimi frutti […]». Se già sapevamo che mangiare bene rende felici, ora sappiamo che ad Assisi questo succede da secoli.

Ciò che rende il cibo ricercato in questo territorio è senza dubbio il suo contatto con la storia. Con l’antichità delle tradizioni e della sapienza attraverso le quali il raccolto passa dalla terra alla tavola. Qualche secolo dopo, sempre in un documento redatto da una commissione agraria istituita dal Regno d’Italia leggiamo che «l’alimentazione dei mezzadri è nella maggior parte costituita di […] focacce o torte che si cuociono in un disco di terra refrattaria riscaldato al fuoco ad una temperatura piuttosto alta». La stessa tecnica è ancora oggi, più di un secolo dopo, utilizzata dai fornai Assisani che preparano la tradizionale Torta al testo. Uno dei prodotti più caratterizzanti il territorio regionale.

Un’altra delle specialità tipiche è sicuramente costituita dall’olio. La città infatti fa parte della fascia olivata Assisi-Spoleto. Un territorio occupato da sei comuni diversi che rappresenta un esempio unico di paesaggio. Da secoli l’intervento dell’uomo, con l’installazione di oltre quaranta chilometri di uliveti lungo i pendii della Valle Spoletana, è in grado di combinarsi con gli aspetti di tutela e conservazione ambientale. Creando un equilibrio unico. La fascia olivata è stata riconosciuta nel 2018 come patrimonio agricolo di rilevanza mondiale dalla FAO, organo delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione.

E se ancora non siete convinti che qui si è felici perché si può mangiare bene, potete sempre fare un giro per i piccoli paesini che sorgono ai piedi di Assisi. Ospitano regolarmente sagre a tema con prodotti tipici. Alcuni esempi? Torta al testo con salsiccia ed erbe cotte. Oca arrosto. Lumache in umido. Maiale in porchetta di Costano. Spezzatino di cinghiale. Parmigiana di cipolla rossa di Cannara. Spaghetti alla caciotta del Subasio e tartufo. Sono solo alcuni dei piatti che potete trovare sulle tavole di questo territorio. Non siete già un po’ più felici?

Assisi non è solo una città da vedere, ma una città da vivere grazie ai suoi eventi. I cittadini e le amministrazioni sono in continuo fermento e organizzano manifestazioni di tutti i generi per far vivere in pieno la città, sia a chi ci abita, sia a chi la visita. Durante tutto l’anno potrete trovare numerosi concerti organizzati in giro per la città e i suoi territori, dal classico Concerto di Natale, che si tiene nella Basilica Superiore di S. Francesco ed è trasmesso in eurovisione, al più alternativo Riverock Festival, che da anni offre la scena alle realtà musicali emergenti e più innovative del panorama nazionale e internazionale. Ad Assisi moltissimi sono gli eventi culinari, comprese le sagre che offrono molte tipicità del territorio, e gli eventi culturali e teatrali, come le stagioni organizzate nei bellissimi teatri cittadini, ad esempio il Metastasio o il Lyrick.

Se visiterete Assisi tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio non dovrete stupirvi di trovare persone in abiti medievali che girano indaffarati per la città, o che si esibiscono in balli e canti medievali, intervallati dai ritmi potenti e ancestrali della bande di tamburini. Sarete nel bel mezzo del Calendimaggio, una delle rievocazioni storiche più antiche e famose dell’Umbria, catapultati improvvisamente nell’Assisi del tardo 1300, quando la rivalità fra le due fazioni cittadine era al massimo della tensione. La Nobilissima Parte de Sopra, guidata dalla antica famiglia Nepis, era schierata con le forze ghibelline italiane impegnate per l’imperatore del Sacro Romano Impero. La Magnifica Parte de Sotto, guidata dalla famiglia Fiume, era schierata con le forze opposte guelfe a favore del potere temporale del Papa.

Ma ogni anno durante le “calende” di maggio (cioè il ciclo nuovo della luna di maggio), tutta la città fermava le ostilità per festeggiare l’arrivo della Primavera, la rinascita della natura e propiziare l’abbondanza del raccolto. Dopo sette secoli, ancora oggi Assisi torna a essere incandescente, straripante di vitalità, calata in un’atmosfera unica e surreale.

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